Lo scorso 6 aprile sono ricorsi i cent’anni dalla nascita del grande drammaturgo e artista polacco, mentre il prossimo 8 dicembre saranno trascorsi 25 anni dalla sua scomparsa. Il 2015 è, insomma, un “anno kantoriano” a tutto tondo – Renato Palazzi
Lo scorso 6 aprile ricorrevano i cento anni dalla nascita di Tadeusz Kantor, mentre il prossimo 8 dicembre saranno trascorsi venticinque anni dalla sua morte. Quello attualmente in corso, con iniziative di studio e manifestazioni di ogni tipo in varie parti del mondo, è dunque sotto tutti gli aspetti un vero e proprio anno kantoriano, nel corso del quale verrà ricordato e celebrato il talento visionario di un genio davvero unico nel tumultuoso panorama del Novecento, emblema di una creazione artistica assoluta, che trascendeva la pittura – cui ha continuato a dedicarsi fino all’ultimo – e il teatro, in cui ha appassionatamente riversato le istanze e i presupposti delle diverse correnti avanguardistiche da lui attraversate nel suo tormentato viaggio intellettuale.
Restano fondamentali, per comprendere un universo tanto denso e complesso, proprio i lasciti delle articolate pratiche artistiche alla cui temperie Kantor si è andato progressivamente formando: gli oggetti poveri, «tra l’immondezzaio e l’eternità», che erano al centro dei suoi spettacoli, con evidente richiamo ai ready made dell’amato Marcel Duchamp; l’attrazione per la materia grezza, non trattata esteticamente, mutuata dall’arte informale e assunta a cifra complessiva di un lavoro scenico che prediligeva le impurità, i suoni “sporchi”, i legnami corrosi; e la presenza dei manichini, eletti addirittura a «modello per gli attori in carne e ossa», in una sua personale risposta alla super-marionetta di un altro grande rivoluzionario del teatro moderno, Edward Gordon Craig.
Il suo percorso può essere diviso in almeno tre distinte tappe: l’inizio col Teatro Indipendente, il gruppo clandestino da lui fondato durante l’occupazione nazista di Cracovia; gli anni del furioso sperimentalismo, fra il ’55 e il ’75, il periodo degli happening, degli emballage – i paradossali impacchettamenti di oggetti, persone, figure di quadri – e dell’incontro-scontro coi testi di Witkiewicz, che per la sua compagnia Cricot 2 furono terreno di audaci esercizi anti-interpretativi, basati sullo svuotamento dei personaggi e di qualunque concatenazione logica dell’azione; e poi la fase della piena maturità, del “Teatro della Morte”, delle intermittenze della memoria, dell’io diviso e frammentato, le suggestioni sottilmente metafisiche che, dalla Classe morta in poi, divennero il contenuto specifico della sua ispirazione.
Ma la distanza temporale impone oggi una necessaria ricollocazione storica della sua opera, i cui contorni si ampliano e sfuggono, a questo punto, a certe categorie più o meno rigide nelle quali era stata finora inquadrata, a certi metodi di analisi che appaiono ormai piuttosto superati.
Il teatro di Kantor si è collocato all’estremo confine tra una soggettività viscerale, esasperata e uno sguardo più ampio sugli eventi della storia. Da un lato c’era l’artista che faceva di se stesso, dei propri fantasmi mentali, dei propri ricordi famigliari la materia prima della rappresentazione, in uno svelamento personale che arrivava quasi alla sfrontata confessione o a un’inquietante introspezione psicanalitica. Non a caso egli sedeva sempre in un angolo della ribalta, come per evocare dal vivo quelle sue proiezioni dell’inconscio: ne La classe morta osservava allibito la vacuità di un’esistenza che trapassa in un istante dall’infanzia alla vecchiaia, in Wielopole Wielopole assisteva da vicino alle macabre nozze dei suoi genitori-cadaveri, in Crepino gli artisti scrutava un po’ sospettoso un “io-quando avevo sei anni” alla guida di un carrettino che davvero gli era appartenuto da bambino. E in Qui non ci torno più interloquiva alquanto bruscamente con le pirandelliane emanazioni delle sue antiche messinscene.
Dall’altro lato c’erano le tragedie collettive che hanno funestato un’epoca, le due guerre mondiali, i lager, le grandi dittature. Queste drammatiche vicende, a lungo mantenute su un piano puramente allusivo, prendevano un risalto via via sempre più nitido, fino a esplodere con lancinante chiarezza nell’ultimo spettacolo, Oggi è il mio compleanno, quello che Kantor non riuscì a portare a termine, stroncato da un infarto alla vigilia della prova generale: qui tutto veniva mostrato in modo insolitamente esplicito, gli sgherri staliniani che torturarono e uccisero Mejerchol’d, le spie, i commissari, i funzionari di regime, e il furgone nero della polizia, e i mutilati sui campi di battaglia, in un frenetico balletto di corpi torturati, vittime del terrore, grotteschi monumenti ad anonimi tiranni.
Lo spettacolo si apriva nella metaforica “casa” dell’artista, fra i cavalletti su cui poggiavano le cornici dei suoi quadri. Ma i richiami al mondo esterno erano incessanti. Oltre a quelli già citati, si inseguivano le voci degli strilloni dei giornali che annunciavano l’attentato di Sarajevo, come nella Classe morta, e come nella Classe morta risuonava l’inno asburgico intonato dal vecchio bidello-soldato. Fra gli arredi di quell’ennesima «povera stanza dell’immaginario» si aggiravano fanti della Grande Guerra, come in Wielopole Wielopole, irrompevano carri armati e cannoni di latta, penetrava ogni sorta di forze estranee e minacciose, mettendo in fuga i suoi inermi abitanti. Ed è forse proprio questo Kantor che punta il suo sguardo acceso sui «movimenti di massa», sulle «ideologie di massa» sui «crimini di massa» ad averci lasciato quelle tracce che risultano ora più profonde.
Ma Oggi è il mio compleanno offriva anche la dimostrazione che la casa e il mondo non sono sfere separate, che il destino dell’individuo non è un dettaglio marginale della storia, così come la storia non è il semplice sfondo su cui si staglia lo smarrimento dell’individuo insidiato da potenze incontrollabili. I due ambiti della sua invenzione – la solitudine dell’uomo di fronte alla morte, di fronte alla struggente percezione di una totalità perduta, e il più vasto orizzonte pubblico di sofferenze comuni in cui essa si esprime – sono in realtà indissolubilmente legati, sono le componenti di un unico, gigantesco affresco, la sintesi definitiva di quel XX secolo che Kantor ha guardato negli occhi dall’inizio alla fine, e di cui la morte o la scissione dell’identità non sono che l’acre quintessenza simbolica.
Oggi, a distanza di tanto tempo, questo respiro “politico” del teatro kantoriano sembra assumere un rilievo sempre maggiore, sembra assorbire per certi aspetti ogni altra componente dell’affresco, fornendone una visione crudelmente unificante. Il concetto, sommariamente, si potrebbe riassumere così: tutta la sua parabola, tutta la sua inaudita potenza creativa ruotavano intorno a un solo nucleo portante, che è il rapporto dell’individuo col potere, lo sgomento dell’essere umano – e dell’artista – annichilito dal potere, di cui le guerre e i genocidi sono i docili strumenti, le emanazioni che lo inseguono fin dentro al suo rifugio più intimo e segreto. E il ruolo dell’arte è di dare voce a questa individualità oppressa per aiutarla a riscattarsi, a erigere – come fa lo scultore Veit Stoss in Crepino gli artisti – le sue fragili barricate.
Tutti questi sottili collegamenti li ha, d’altronde, puntualmente illustrati lo stesso Kantor, i cui scritti sono stati spesso presi come puri documenti poetici, ma che invece forniscono delle preziose chiavi di lettura. Si veda, ad esempio, uno dei suoi testi più famosi, quel Piccolo manifesto pronunciato nel ’78, in occasione della consegna del Premio Rembrandt:
«Non è vero che l’uomo MODERNO è uno spirito che ha vinto la paura. Non credetelo! La paura esiste. La paura davanti al mondo esterno, la paura davanti al destino, davanti alla morte, davanti all’ignoto, la paura davanti al nulla, davanti al vuoto. Non è vero che l’artista è un eroe e un conquistatore intrepido come ci insegna la leggenda convenzionale. Credetemi, è un uomo povero e senz’armi, poiché ha scelto il suo posto faccia a faccia con la paura. Pienamente cosciente. È nella coscienza che nasce la paura. Sono qui dinnanzi a voi impaurito, accusato, giudici severi ma giusti. Ed è questa la differenza tra me e i dadaisti, di cui mi sento discendente. “Alzatevi! – esclamava il Grande Beffardo Francis Picabia – siete accusati'”. Ed ecco la mia correzione – oggi – a quell’invocazione un tempo imponente: sono qui dinnanzi a Voi, giudicato e accusato. Mi tocca giustificarmi, cercar prove, non so se della mia innocenza o della mia colpa… Sono qui dinnanzi a Voi… come una volta… stavo nel banco di scuola… in classe… e dico: ho dimenticato, sapevo, sapevo certamente, Vi assicuro, Signori e Signore…».
In questo brano c’è già tutto, la morte, la paura, la perdita della memoria e della coscienza di sé, la sottomissione a un’ignota autorità, e perfino i banchi tarlati della Classe morta. C’è il folgorante cortocircuito tra passato e presente. C’è l’informe e mutevole «impasto della vita». E c’è un bruciante ritratto dell’uomo del Novecento, con le sue illusioni e le sue sanguinose prese di coscienza.