Malgrado le molteplici difficoltà affrontate, il festival calabrese di Castrovillari ideato e organizzato da Scena Verticale ha mostrato un’incisività in crescita, con spettacoli da vedere di Mario Perrotta, Fibre Parallele, Enzo Moscato, Sergio Pierattini, Mariano Dammacco – Maria Grazia Gregori
Tira una buona aria a Castrovillari e in questa nuova edizione (la sedicesima) del Festival organizzato e creato da Scena Verticale: una presenza particolarmente significativa in una regione come la Calabria all’apparenza lontana e perfino disinteressata al teatro. Primavera dei teatri ancora una volta ha fatto piazza pulita di questa falsa credenza, con un’incisività perfino superiore alle passate edizioni: merito dell’esperienza acquisita, delle generazioni di teatranti che spesso sanno lasciare un segno, della fortuna di una manifestazione in grado di coniugare il passato con il presente, alla ricerca di un “lascito”possibile fra generazioni, un ideale passaggio di testimone, salvo restando l’assoluta indipendenza e originalità di stili e ricerche diversi.
Così quest’anno accanto alla nuova drammaturgia di Enzo Moscato, Saverio La Ruina, Fibre Parallele, Sergio Pierattini, Quotidiana.com, ha trovato un suo spazio l’edizione della Bisbetica domata della Factory Compagnia Transadriatica purtroppo non troppo felice nel risultato e la straordinaria performance di Mario Perrotta dedicata sull’anniversario del centenario della Grande Guerra del 1915-1918 Milite ignoto quindicidiciotto, tratto dall’attore-regista-drammaturgo dai saggi e da alcuni diari scritti dai soldati magari proprio prima della morte e nei momenti più cupi del conflitto.
Fra le proposte presentate a teatri esauriti di fronte a un pubblico che univa idealmente tutte le età mescolando ragazzi a incalliti adulti, quando non adultissimi, spettatori teatrali oltre a Scannasurice di Enzo Moscato, straordinaria performance di Imma Villa diretta da un ispirato e inventivo Carlo Cerciello e a Ombretta Calco di Sergio Pierattini nella bellissima interpretazione di Milvia Marigliano (di cui si scriverà a parte) mi ha colpito la disperazione vera, animale e, insieme, la disperata dolcezza di La beatitudine di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo di Fibre Parallele che prende il titolo dalla celebre canzone di Rino Gaetano, ed è scandita quasi per tutta la sua durata da “Ara Batur”, song dei Sigur Ross.
La beatitudine – in palese bisticcio con il titolo – racconta la terribile discesa agli inferi, al male di vivere di una coppia che ha perso il figlio atteso e che, per volere delle donna, sceglie la finzione: vivere come la famiglia che non si è, sotto la dittatura inconsapevole del figlio mai nato, qui rappresentato da un manichino, suggerendo più volte la realtà di piccole liti senza sostanza superate poi in nome della fissità dello sguardo del figlio, di fronte al quale e grazie al quale rappresentare stanche abitudini quotidiane ammantate di disperante dolcezza.
Del resto, in un monologo struggente, emotivamente fortissimo, la protagonista ci rivela fin dall’inizio “pirandelliano”la differenza fra realtà e finzione, la difficoltà della scelta fra questi due estremi e di quanto sia doloroso farla. Perché qui Licia, 32 anni, Bilancia, racconta con immagini pregnanti venate da una indubbia autobiografia, colme di rabbia e di dolore la sua storia, il suo aborto, simile in tutto e per tutto a un’Erinni ferita, prendendo in braccio quel bambino che non c’è, quella finta propaggine della sua negata maternità, per portarlo nella casa in cui vive con Riccardo, che lo dovrà accudire. E poi c’è una seconda coppia formata da madre e figlio: lui in carrozzella, lei severissima, entrambi prigionieri di voglie segrete. E se la finzione è l’amore e il sesso, nella realtà ecco formarsi coppie diverse sotto lo sguardo impassibile del manichino figlio. Licia (la interpreta la bravissima Licia Lanera) tenta invano diversi accoppiamenti con il giovane paraplegico (Danilo Giuva); Riccardo (Riccardo Spagnulo, che bene rende il suo ondivago personaggio) si lascia catturare dalla comprensione e dalla sessualità morbida della madre del ragazzo (una sorprendente Lucia Zotti). In entrambi i casi è la donna a decidere il risvolto da dare alla storia, l’uomo subisce sempre le conseguenze di qualcosa rispetto al quale è del tutto impreparato. E non basta l’aiuto di un sedicente, divertente mago, tale Cosma Damiano (Mino Decataldo) a risolvere l’intricata situazione dove di fatto la fine è il principio e il principio la fine con tutti chiusi lì in un cerchio che non sarà mai magico.
Quanto La beatitudine è visceralmente drammatica tanto Milite ignoto di Mario Perrotta è “dolcemente brechtiano”. Dove l’avverbio mitiga l’aggettivo senza disconoscerlo in uno spettacolo in cui Perrotta è voce narrante e personaggio umanamente partecipe e, allo stesso tempo, narratore straniato. Tutto questo è possibile perché l’interprete ama dare voce anche tragica ai piccoli uomini che hanno fatto l’impresa di vivere e sopravvivere in un ambiente ostile e, in questo caso, di unificare l’Italia. E li ricorda, con gesti minimi, quasi solo a sottolineare discretamente la presenza di un mondo quasi mai considerato con il suo quieto, laborioso eroismo vissuto non come dimensione eccezionale di una vita ma che ne è, al contrario, parte integrante come i colori, il variare delle stagioni, il lavoro nei campi, i baci, la voglia di vivere che rendono gli eroi quotidiani semplici esempi di un popolo, protagonisti di gesti e azioni che mai avevano pensato possibili. Ammirevole nella misura (e nella bravura), Perrotta ci regala uno spettacolo che, aldilà del suo indubbio valore artistico, dovrebbe essere presentato nelle scuole perché la sua visione “vale” un libro, scritto dalla voce, dalla presenza, dal gesto misurato di questo formidabile interprete che dà senso alle parole e alla vita degli altri.
Ma vorrei ricordare anche la nuova edizione di Polvere. Dialogo fra uomo e donna di Saverio La Ruina di cui ho già scritto, che però è arrivato a Castrovillari 2015 con una nuova, sensitiva interprete femminile, Cecilia Foti, che disegna con un approccio allo stesso tempo delicato e forte il suo personaggio di giovane donna – vittima designata di un uomo che su di lei opera la violenza più atroce: l’annullamento della sua personalità, costringendola addirittura a vergognarsi di se stessa – suggerendo però anche il senso di una possibile ribellione nei confronti di un carnefice (lo interpreta con intatta bravura Saverio La Ruina) un uomo piccolo piccolo che trova nella sopraffazione la sua sola ragione di vita.
E, last but not least, una sorpresa,almeno per me, è stato sicuramente L’inferno e la fanciulla (foto), regia di Mariano Dammacco, che ha per protagonista (ma anche come coautrice) la ballonzolante, bravissima Serena Balivo, all’inizio bambina stupefatta davanti a tutto, in ansia per la sua “entrata in società”: il suo primo giorno di scuola. Una bambina che parla in falsetto, che sembra aver paura di tutto, che va incontro al mondo con un po’ di tremore ma che ne riceverà un’educazione che le farà conoscere l’autorità, la voglia di ribellarsi, l’ansia di trovare qualcosa che l’attragga. Malgrado l’andatura a balzelloni, che la fa apparire come una preda facile per tutto e tutti, la ragazzina non è certo un personaggio felliniano, né alla Charlot, ma assomiglia, piuttosto, alla terribile, ribelle Mafalda di Quino. Che nel suo viaggio per il mondo dei grandi scopre di potere essere cattiva, di potere offendere e difendersi, costi quel che costi. Una ragazzaccia pronta a ribellarsi… e allora addio falsetto!