Pareva una cosa lieve, piccola, marginale, rispetto all’articolato programma del festival di Santarcangelo 2015, ma “Time as fallen asleep in the afternoon sunshine” della norvegese Mette Edvardsen si è rivelato un progetto capace di suscitare riflessioni profonde sull’essenza del teatro e sul futuro della cultura – Renato Palazzi
C’è stata un’esperienza, nell’articolato e meditatissimo programma del festival di Santarcangelo, che pareva una piccola cosa lieve, marginale, basata su un meccanismo all’apparenza elementare, ma che invece si è rivelata imprevedibilmente densa di significati non solo emotivi: ricordate Fahrenheit 451, l’emblematico film di Truffaut – da un romanzo di Ray Bradbury – nel quale una comunità di ribelli, in un mondo dove i libri sono vietati, e vengono spietatamente distrutti, imparano a memoria interi volumi per poterli trasmettere all’umanità del futuro? In Time as fallen asleep in the afternoon sunshine la norvegese Mette Edvardsen ha tradotto questa immagine in un progetto teatrale in cui alcuni giovani attori, dopo avere memorizzato una serie di opere letterarie, le ripetevano a un solo ascoltatore per volta.
L’azione, se così vogliamo chiamarla, si svolgeva nell’area della biblioteca comunale, dove lo spettatore si presentava a un orario stabilito e veniva indirizzato – in base, credo, alle disponibilità del momento, i turni di esecuzione duravano una quarantina di minuti – all’ascolto di un libro scelto per lui in una lista di sei titoli, da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg a L’analfabeta di Agota Kristof, da Così parlò Zarathustra a Bartleby the scrivain di Melville detto addirittura in lingua originale. L’attore che si assumeva il ruolo di “libro vivente” sceglieva dove svolgere il suo compito, una sala della biblioteca, un angolo del giardino, una panchina nella strada accanto, e cominciava a scandire il testo. A me è toccato Nietzche, una materia impegnativa sia per chi doveva affrontarla che per chi si limitava ad ascoltare.
Questo rituale dell’esposizione del sapere avveniva secondo un codice rigorosamente prefissato: l’attore – nel mio caso una ragazza, davvero molto brava – e lo spettatore sedevano vicini, in una sorta di strana intimità comunicativa, ma i loro occhi non si incrociavano mai. Il “libro vivente” aveva lo sguardo fisso nel vuoto, teso nell’impegno mnemonico, con espressione lontana, ma non assente. Seguiva la trama del libro con un tono studiatamente impersonale, che però non diventava mai né freddo né indifferente. Sottolineava vocalmente certi brani, certe situazioni più movimentate, senza cedere alla tentazione dell’eccesso interpretativo: la sua funzione era di esporre, non di recitare in senso stretto. Manteneva un’ammirevole concentrazione anche di fronte ai rumori del traffico, all’avvicinarsi di veicoli o di passanti.
C’era, in questo sforzo di ricordare, di condividere la materia appresa con un ignoto interlocutore, astraendosi dalla realtà circostante – o calandosi piuttosto in quella realtà, sfidandola e riuscendo a imporsi, nonostante tutto, su di essa – qualcosa di poetico e sottilmente struggente. Colpiva lo stile, preciso e sorvegliatissimo, a cui i giovani attori coinvolti si attenevano con ferrea disciplina. Ma colpiva soprattutto l’abnegazione, lo spirito di sacrificio e quasi di auto-annullamento con cui essi si mettevano al servizio di quei testi faticosamente mandati a mente, sembravano identificarsi carnalmente con essi, facendone rivivere le parole per qualcuno di cui dovevano catturare l’attenzione: in questo offrirsi si poteva anche cogliere una sorta di metafora del teatro, un teatro ridotto alla sua essenza originaria e primordiale.
Ma l’aspetto prevalente dell’operazione non era – attenzione – lo sfoggio delle virtù del narratore, che venivano anzi prosciugate e compresse: era l’atto in sé di trasmettere, che ha una valenza ben diversa da quella di una mera drammatizzazione. L’accento, qui, non veniva posto sulla semplice trasposizione sonora di un testo scritto, come potrebbe accadere per gli audiolibri oggi tanto di moda. Come nel film cui il progetto si ispira, trasmettere significa in primo luogo testimoniare, conservare, passare ad altri un bagaglio di cui si è solo i temporanei depositari. Occorre poi non dimenticare che il progetto veniva presentato all’interno di un festival dedicato ai rapporti fra teatro e attualità politica. Questa collocazione non neutra gli aggiungeva delle ulteriori chiavi di lettura: da cosa sente il bisogno di salvare i libri la Edvardsen?
Nel nostro tempo, ovviamente, non vi è un regime dispotico che vuole darli alle fiamme. Ma vi è un pensiero e una cultura – sembra suggerire l’artista norvegese – che va comunque simbolicamente difesa da un potere che, nella migliore delle ipotesi, non sa cosa farsene, non se ne cura e se ne sente forse disturbato e minacciato. Time as fallen asleep in the afternoon sunshine non è di sicuro l’ultima chance di quell’umanità, prefigurata da Truffaut, di preservare il proprio patrimonio interiore, ma nella sua essenzialità è la rappresentazione indiretta e allusiva di un conflitto che ci tocca tutti da vicino.
Visto al Festival del Teatro in Piazza di Santarcangelo. Ultime repliche (su prenotazione), 18-19 luglio 2015
Time as fallen asleep in the afternoon sunshine
concept Mette Edvardsen
con Isadora Angelini, Mette Edvardsen, Sara Masotti, Muna Mussie, Irena Radmanovic, Kristien Van den Brande
co-production: Kunstenfestivaldesarts (Brussels), DanceUmbrella (London), Dubbelspel (STUK Kunstencentrum & 30CC Leuven)
coproduzione di Santarcangelo dei Teatri per Santarcangelo 2015 Festival Internazionale del Teatro in Piazza
supportato da: Norsk Kulturråd, Fond for Lyd og Bilde, Fond for Utøvende Kunstnere, Norwegian Ministry of Foreign Affairs, Flemish Government
grazie a Kaaitheater, Bibliothèque royale de Belgique/Koninklijke Bibliotheek van België, Sarah Vanhee, Maya Wilsens
http://www.metteedvardsen.be/