Danio Manfredini

Quante facce per una Vocazione

Presentata in veste definitiva al Festival di Santarcangelo, la nuova pièce di Danio Manfredini è un amaro viaggio nella professione dell’attore, compiuto attraverso la riproposizione di celebri brani d’autoreRenato Palazzi

Si intitola emblematicamente Vocazione il nuovo spettacolo-confessione di Danio Manfredini sulla fatica del far teatro, sul terribile confronto quotidiano dell’attore con le proprie debolezze e coi propri fantasmi interiori, presentato a Santarcangelo la scorsa estate in forma di “studio” e riproposto quest’anno in veste definitiva. Ma dove ci porta, esattamente, questo termine ambiguo, “vocazione”? Secondo il dizionario, esso indicherebbe una «predisposizione naturale», una «profonda inclinazione per qualcosa». Dunque una strada facile, un cammino già tracciato.

Tenendo conto, però, che nella costruzione drammaturgica di Manfredini l’unica a parlare di vocazione è un’attrice che credeva di poter aspirare a grandi mete, ma deve misurarsi sera per sera con la propria mediocrità come la Nina del Gabbiano di Cechov, e considerando che il collage di brani diversi di cui si compone lo spettacolo evoca una serie di figure di teatranti non in ascesa ma in declino, alle prese coi propri fallimenti, soli di fronte alla vecchiaia e alla morte questo concetto di vocazione assume forse un altro senso: probabilmente va inteso in un’accezione amaramente paradossale, come un miraggio o una condanna.

Il cranio rasato come un danzatore butoh, affiancato – sulla ribalta vuota – dal suo abituale compagno di lavoro, Vincenzo Del Prete, Danio compie una vera e propria discesa agli inferi, calandosi negli abissi dell’anima di quella particolare categoria umana sospesa tra essere e non essere: non a caso il suo tragitto si apre con Minetti di Thomas Bernhard, ritratto dell’anziano divo la cui esistenza consiste solo nella possibilità di recitare Re Lear. E poi c’è, appunto, Il gabbiano, e il guitto bizzoso di Servo di scena di Ron Harwood, e l’istrione in disarmo del Canto del cigno di Cechov, e l’attore fallito di Un anno con 13 lune di Fassbinder, divenuto il cinico uomo d’affari pronto ad abbandonare l’amante che per lui ha cambiato sesso.

Nell’addentrarsi in questi ramificati labirinti mentali, i due indossano spesso elementi di costume e agghiaccianti maschere di lattice, di quelle che Manfredini aveva già adottato in Cinema Cielo, sinistri posticci – eccessivi, innaturali – più che semplici artifici per cambiare i lineamenti. E in effetti Vocazione colpisce, a mio avviso, soprattutto sul piano visivo: la scena del Gabbiano, con Danio che veste i panni e ha il volto livido, inespressivo di Nina, o quella in cui lui incarna l’ex-macellaio Erwin di Fassbinder, trasformato dai chirurghi nell’ormai sfiorita Elvira, sono ad esempio di grande effetto, piuttosto impressionanti.

Anche le scelte drammaturgiche mi sono parse interessanti: Bernhard, si sa, con quel suo sarcasmo lucidamente disperato graffia sempre. Ma Psicosi delle 4.48 affidato a un uomo, a Del Prete, è un’idea, inquadra il testo di Sarah Kane da una prospettiva insolita, non banale. Il sir Ronald di Harwood, col barbone e la parrucca esagerata, è una sfacciata parodia, ma una parodia sottilmente macabra, per nulla buffa. Il Testori di Conversazione con la morte si adatta alla perfezione al contesto. Con Fassbinder, invece, Manfredini si cita, richiama i suoi Tre studi per una crocifissione, dando al tutto un’ulteriore valenza autobiografica.

Poi, certo, non aveva completamente torto l’ignota signora seduta accanto a me, che mi chiedeva perché le angosce di un attore debbano essere più importanti di quelle di un’impiegata: di sicuro, in questo viaggio introspettivo, c’è qualcosa di vagamente autoreferenziale. Ma è l’autoreferenzialità propria del teatro, strettamente connaturata a esso, e ci può stare: se non parla di sé, di cosa mai dovrebbe parlare chi si presenta al pubblico cercando di trasmettergli dei sentimenti? Magari può fingere di calarsi nelle vite degli altri, ma sono sempre le sue personali sensazioni che esibisce, è la sua verità che alla fine viene messa a nudo.

Quello che invece mi ha convinto meno, stranamente, è in questo caso proprio la recitazione, di Manfredini stesso più ancora che del suo partner, che si limita a fare ciò che deve, senza pretese di svettare. Danio è un maestro, su questo non c’è dubbio, ma qui – posso dirlo? – si fa prendere, a mio parere, un po’ la mano dall’urgenza delle emozioni: nel suo Minetti, nel suo Svetlovidov cechoviano mette delle note di patetismo – come un di più di risentimenti e recriminazioni – che non appartengono agli autori in questione, e che anzi contrastano con l’asciutta essenzialità del loro stile. E la sua spettrale Nina – «Io sono un gabbiano. No, che c’entra. Sono un’attrice…» – è di forte impatto, ma aggiunge poco a quanto già sappiamo del personaggio.

Visto a Santarcangelo dei Teatri, luglio 2014. Dal 18 al 23 novembre 2014 all’Elfo Puccini di Milano

Vocazione di Danio Manfredini

Vocazione
ideazione e regia: Danio Manfredini
progetto musicale: Danio Manfredini, Cristina Pavarotti, Massimo Neri
disegno luci: Lucia Manghi, Luigi Biondi
con: Danio Manfredini, Vincenzo Del Prete

Un commento su “Quante facce per una Vocazione

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