Il capolavoro cechoviano rivisto da Thomas Ostermeier parla quanto mai la lingua dell’oggi ma in ciò è aiutato, come altre produzioni del passato, dall’estrema attualità e dalla qualità della scrittura del drammaturgo di Taganrog – Maria Grazia Gregori
Dopo avere visto Il Gabbiano di Cechov con la regia di Thomas Ostermeier, coproduzione internazionale che ha il Teatro Stabile di Torino (unica tappa italiana) fra i suoi partners, non si può fare a meno di chiedersi: chi è Cechov per noi e cosa siamo noi per lui? È un po’ la stessa domanda che ci si fa ormai da tempo sui tragici greci e su Shakespeare ma forse per Cechov la risposta è più semplice.
Nessuno scrittore di teatro come lui è oggi più che mai “contemporaneo” per i temi affrontati, per l’inquietudine palese che ci trasmettono, per quel senso di inadeguatezza dei suoi personaggi, per quel trovarsi a vivere in una società che ormai da tempo ha perso la sua bussola e fatica a ritrovarne un’altra. Da questo punto di vista Il gabbiano, con il confondersi dei piani di rappresentazione è forse uno dei testi più emblematici di Cechov dove è proprio lui, l’autore, un contenitore (forse sarebbe meglio dire un continente) in cui ognuno può trovare qualcosa, scoprire un punto di vista personale. È già successo, per esempio, in Un altro gabbiano, geniale rivisitazione di Luca Ronconi e nell’interessante, coraggioso Gabbiano di Carmelo Rifici.
Nelle sue note di regia Ostermeier parla del “suo” Cechov, della sua attenzione al sociale, della sua generosità di medico nell’assistere gratuitamente persone senza alcun compenso, nel suo avere scritto un pamphlet feroce contro le durissime condizione di vita alle quali erano sottoposti i carcerati dell’isola di Sakhalin, visitata di persona. Non solo ma sostiene che oggi Cechov “potrebbe essere un attivista per i diritti umani, un funzionario di una ONG”. Ai tempi suoi, tempi di socialismo utopistico (ricordo a questo proposito The Coast of Utopia di Tom Stoppard, prodotto proprio dallo Stabile torinese qualche anno fa) questa inquietudine dei personaggi cechoviani veniva considerata quasi uno scandalo inaccettabile di cui nessuno, almeno all’interno di quella società, riusciva a trovare il bandolo.
Cechov era in qualche modo come i suoi personaggi, un disadattato, di cui lucidamente condivideva in certo qual modo lo spleen. Per fare questo partiva da un nucleo ben definito, per esempio nel Giardino dei ciliegi, il rendersi conto che una nuova classe, quella degli ex servi della gleba arricchiti, era pronta a prendere il potere, magari senza un progetto di vita. Nel Gabbiano c’è il contrasto fra giovani e vecchi, la ricerca di un nuovo modo di fare teatro, di scrivere, l’inquietudine della solitudine di chi si sente diverso e “cinque tonnellate di amore” (Cechov) spesso infelice.
In questo spettacolo, dove dirige degli attori di lingua francese, Ostermeier rende palpabili questi interrogativi che ci agitano ancora oggi, ma scompaginando le carte come spesso avviene nelle sue regie. Ecco due attori venire alla ribalta in una sorta di prologo: parlano di emigrazione, di Siria, chiedendosi e chiedendoci del perché siamo lì. Prologo inaspettato che ci fa venire voglia di rispondere: siamo qui per vedere Cechov, punto e basta. Ma ecco che lo spettacolo ha inizio e gli attori che fin da quando siamo entrati nella sala stavano seduti ai lati del grande palcoscenico delle Fonderie Limone, si alzano e lo spettacolo prende il via, ma quello sfasamento iniziale resta. Lo si capisce nel corso del tempo: il regista sembra volerci dire che noi siamo come Cechov, impantanati nella nostra inattività, ma capaci di pensare e con una voglia di agire che resta però inespressa, un tarlo segreto.
Gli attori si muovono lungo tutta la scena, bastano pochi oggetti per definire lo spazio: il piccolo palco della recita di Kostja, il tavolino del gioco a tombola, un gabbiano impagliato. A sottolineare l’azione, come una sorta di distanziazione quasi brechtiana, ci sono due attori-cantastorie che con chitarra e canto sembrano commentare l’azione che sostituisce il canticchiare, il fischiettare dei personaggi. Ma pur cominciando come da testo con una delle battute più famose al mondo “porto il lutto per la mia vita”, Ostermeier, che ne firma la drammaturgia, agisce liberamente sul testo cechoviano eliminando personaggi e battute. Il dramma si fa subito chiaro quando Kostja insieme a Nina, ragazza ribelle da lui amata, appronta la recita del suo testo fra il menefreghismo ridanciano dei presenti e c’è – un gesto di ribellione o un gesto sacrificale? – un animale (finto) squartato il cui sangue imbratta vestiti e corpo di Kostja fra il rifiuto della madre, l’attrice Arkadina, e la riprovazione degli astanti, fra i quali spicca Trigorin, suo amante, sciupafemmine e scrittore mediocre ma di successo.
Da questo momento i personaggi sembrano girare a vuoto: uomini che non sanno amare, ragazze che si illudono, amanti che ritornano dopo la sbornia di giovanilismo. E in mezzo a tutto questo, contro tutto questo si direbbe, si parla del vecchio teatro, di una nuova poesia indefinita e simbolica che deve essere capita di cui Kostja e Nina sono i seguaci. Si sa come va la storia: Nina e Trigorin staranno insieme, avranno un figlio che morirà, lui tornerà da Arkadina, Nina girerà per i freddi teatri di provincia mentre Kostja la rimpiange e intanto scrive racconti che vengono pubblicati ma lui (come del resto Cechov) non vuole essere uno scrittore di novelle, ma lasciare un segno più forte, più innovatore nel mondo che sente più suo, il teatro… Entrambi saranno sconfitti, il loro colloquio finale tenuto sul filo di un non detto che sfiora il dramma, finisce con l’andata via della ragazza-gabbiano e il suicidio di Kostja. Ma questa scena finale si intreccia con una scena capolavoro recitata in puro stile stanislavskjiano da questi bravissimi attori che giocano a tombola attorno a un tavolo così intenti che il rumore di uno sparo viene confuso con un tuono.
Fra tutti i bravissimi attori spicca la grande Valérie Dréville che è Arkadina e che ricordiamo bellissima (lo è ancora) e nuda anni fa nella Medea Material di Heiner Müller, regia di Anatolij Vassiliev.
Visto alle Fonderie Teatrali Limone di Moncalieri
Il gabbiano
di Anton Čechov
traduzione Olivier Cadiot
adattamento Thomas Ostermeier
regia Thomas Ostermeier
Théâtre Vidy-Lausanne
in coproduzione con Odéon – Théâtre de l’Europe, Théâtre National de Strasbourg, Teatro
Stabile di Torino – Teatro Nazionale, La Filature – Scène nationale à Mulhouse, TAP – Théâtre
Auditorium de Poitiers Théâtre de Caen