Un cast di assoluto livello con al centro il felice esordio nel ruolo di Fernand del tenore John Osborn ha accompagnato alla Fenice di Venezia la versione originale francese dell’opera di Donizetti. Misurata la direzione di Donato Renzetti, azzeccati scene e costumi, meno la regia. Convintissimi applausi finali – Davide Annachini
Opera di repertorio un tempo, La Favorita di Donizetti è diventata oggi poco più di una rarità, soprattutto se la si propone nella versione originale francese, scritta per Parigi nel 1840 e solo in anni recenti recuperata, come ha fatto ora la Fenice di Venezia con ottimo successo di pubblico. Le principali differenze tra La Favorite e La Favorita (versione realizzata per l’Italia nel 1843) stanno al di là della lingua e di alcune varianti del libretto in una confezione più votata al grand-opéra, con i ballabili e un maggior rilievo dato alle scene d’insieme, in un’aria aggiunta per il tenore e in un finale diverso rispetto a quello più risolutivo della versione italiana. Sicuramente quella francese evidenzia una finezza di stile e un’eleganza che nella successiva hanno lasciato il posto ad una maggiore urgenza e drammaticità, più in linea con il melodramma di casa nostra, pur conservando tutta la qualità dell’ultimo Donizetti, ricco di intensità lirica, di melodie bellissime, di grande forza teatrale.
Se quest’opera non conosce più la frequentazione di un tempo non è quindi per debolezza della scrittura quanto per la difficoltà di reperire interpreti all’altezza, a partire dal tenore per il ruolo di Fernand – scritto per Gilbert Duprez, il mitico inventore del cosiddetto “do di petto”, nota che costella una parte in cui sono richieste anche dolcezza di canto e grande eleganza – per passare a Léonor, mezzosoprano acuto di indispensabile fascino protagonistico, e ad Alphonse XI, destinato da sempre a baritoni di grande nobiltà vocale e stilistica.
La Fenice sotto quest’aspetto ha centrato in pieno le richieste, schierando un cast di assoluto livello, in cui per altro quasi tutti gli interpreti erano debuttanti nei rispettivi ruoli. Felicissimo esordio è stato quello di John Osborn, tenore americano ormai insostituibile per questo repertorio, come ha dimostrato il suo Fernand, risolto con una linea di canto raffinata quanto espressiva nei continui giochi di colori, di accenti e di arditezze vocali (come le suggestive smorzature o gli acuti sicurissimi), messi però sempre a vantaggio del personaggio e non del personale protagonismo tenorile. Una prestazione giustamente applauditissima e che costituiva l’interesse prevalente dell’edizione veneziana, forte come si è detto di diverse altre frecce al suo arco, quale la Léonor di Veronica Simeoni, una Favorite di densa qualità timbrica, disinvolta nel registro acuto, dalla forte personalità e sensibilità, in grado di dominare la scena anche in virtù della bella presenza fisica che ne fatto un’interprete centratissima e molto apprezzata dal pubblico veneziano, di cui negli ultimi anni è diventata praticamente la beniamina. Molto pregevole anche Vito Priante nel ruolo del re, restituito tanto nella linea aristocratica del canto e nella finezza dello stile quanto nell’autorità del personaggio, visto dalla regia in una chiave noir, dai risvolti cinici per non dire addirittura sinistri. Di forte impatto vocale, ampio e solenne, il Balthazar del basso Simon Lim, gradevole la Inès di Pauline Rouillard e di spicco il Don Gaspar di Ivan Ayon Rivas, giovane tenore dal timbro compatto e dall’acuto fulminante, come il sonoro do con cui si è unito ai due protagonisti alla fine del terzo atto.
Donato Renzetti ha diretto i complessi della Fenice con mestiere e buona tenuta drammaturgica, forse non valutando sempre l’estrema sonorità della sala della Fenice, capace di trasformare un forte in un fortissimo, ma sostenendo il canto e l’azione con la consapevolezza e la misura di sempre.
Lo spettacolo appariva frutto di un lavoro formalmente accurato e ben realizzato: belle le scene plastificate di Massimo Checchetto, in grado di restituire trasparenze vetrose e spazi sospesi nel tempo, eleganti i costumi di Claudia Pernigotti, dalle linee sobrie e cadenti che sembravano riportare al mondo simbolista di un Puvis de Chavannes, molto suggestive le luci di Fabio Barettin, in grado di evocare atmosfere misteriose e segrete come di abbacinante asetticità. Riportare tutto questo alla lettura registica di Rosetta Cucchi tornava però quanto meno arduo e di difficile immaginazione, tanto la sua scelta sembrava arbitraria e concettuale. Una lettura trasportata a una civiltà del futuro, in cui le donne hanno perso la loro identità e gli uomini invece hanno acquisito un potere tirannico e dalle ritualità pseudo-massoniche, dove gli unici a sfuggire alle regole sono i due protagonisti, in virtù del loro amore. Una fantasia registica che abbiamo rispettato ma che ci ha convinto poco e piaciuta ancora meno.
Visto il 15 maggio alla Fenice di Venezia. Ultime repliche oggi, 18 maggio e sabato 21 maggio 2016
La favorite
Opera in quattro atti
Libretto di Alphonse Royer, Gustave Vaëz ed Eugène Scribe
Musica di Gaetano Donizetti
Léonor – Veronica Simeoni
Fernand – John Osborn
Alphonse XI – Vito Priante
Balthazar – Simon Lim
Don Gaspar – Ivan Ayon Rivas
Inès – Pauline Rouillard
Un signore – Salvatore Di Benedetto
Direttore – Donato Renzetti
Regia – Rosetta Cucchi
Scene – Massimo Checchetto
Costumi – Claudia Pernigotti
Light designer – Fabio Barettin
Projection designer – Sergio Metalli
Movimenti coreografici – Luisa Baldinetti
Maestro del coro – Claudio Marino Moretti
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice