Giorgio Albertazzi si definiva con civetteria “perdente di successo” ma apparteneva di fatto a quella esigua truppa di grandi attori fuori dalla norma, figli del vecchio teatro ma che cercavano di farne uno nuovo – Maria Grazia Gregori
Ma perché si è portati a credere che con Giorgio Albertazzi sia sparito l’ultimo degli attori eroici? Non mancato, sparito, quasi se ne fosse perso lo stampo. Come attore lui che, con civetteria, aveva scelto per le sue memorie il titolo di “Un perdente di successo”, apparteneva di fatto a quella esigua truppa di grandi attori fuori dalla norma, figli del vecchio teatro ma che cercavano di farne uno nuovo, sia pure in modi diversissimi: come Vittorio Gassman, per esempio, che come lui poteva recitare l’infinitamente alto o l’infinitamente basso. Interpreti che hanno vissuto a cavallo fra due secoli, attori che mescolavano insieme fisicità e una fortissima curiosità intellettuale. Ad accomunarli una certa idiosincrasia per la figura del regista anche se Albertazzi aveva debuttato al Teatro della Meridiana con Bianca Toccafondi (che poi diventerà la sua compagna) diretto da Franco Enriquez in un De Musset per poi recitare nel 1949 ai Giardini di Boboli in Troilo e Cressida di Shakespeare nel ruolo del paggio della protagonista (un paggio bellissimo si scrisse) diretto da Luchino Visconti.
In realtà il suo battesimo teatrale era avvenuto qualche anno prima mentre era studente intrigato dall’invito di una professoressa “che era bellissima” che gli aveva proposto di recitare in una compagnia amatoriale. Certo si sentiva attratto dal teatro, ma soprattutto ad attrarlo c’era quella bellezza di cui si è sempre sentito un seguace, fosse quella di un testo o di uno spettacolo o di una donna. “Una rosa che splende nel nero”, mi disse una volta.
Era nato da una famiglia modesta, non aveva frequentato nessuna Accademia e tanto meno ne era stato cacciato. A un certo punto della sua vita il padre si trovò a lavorare nella Villa I Tatti dove allora viveva il famoso critico d’arte Bernard Berenson abitando nella casa del custode e da una finestra di quella casa il ragazzino Giorgio poteva guardare nel grande parco della villa e vedere, sia pure da lontano, i signori e le signore eleganti che venivano in visita magari per il rito del tè. Berenson se ne accorse e decise di impedire quella che lui, probabilmente, considerava una profanazione della sua intimità mentre per il ragazzino tutto questo significava ammirare immagini che per lui erano di assoluta bellezza, ma Berenson fece murare la finestra. Credo che da lì gli sia venuta quella voglia di ribellione, quella rabbia che lo portarono durante la guerra a scelte discutibili come l’adesione alla repubblica di Salò che non ha mai nascosto e per le quali ha anche pagato un prezzo.
Nei suoi primi passi in teatro Giorgio ha avuto la fortuna di formarsi accanto ai più grandi della sua epoca da Benassi a Ricci e di conoscere una giovane Anna Proclemer con la quale vivrà un lungo sodalizio amoroso e di lavoro. Il suo primo vero successo è Il seduttore di Diego Fabbri e con la Proclemer con cui ha fatto compagnia si distingue per la scelta di un repertorio coraggioso: La Ragazza di campagna di Odets, Requiem per una monaca di Faulkner-Camus, ma anche Sartre, Ibsen, il Miller di Dopo la caduta, La governante di Brancati tartassata dalla censura, Pietà di novembre e La fastidiosa di Franco Brusati. Ma la grande notorietà anche internazionale la raggiunge nell’Amleto diretto da Franco Zeffirelli, presentato anche a Londra con grande successo. Un Amleto “moderno”, figlio di un’epoca piena di dubbi che in quel 1963 fece di lui un attore amatissimo dai giovani. Un “capocomico”, dunque, dalle scelte coraggiose che sapeva guardare avanti ma sempre legato alla grandezza dei classici, soprattutto a Shakespeare che considerava la palafitta su cui appoggiare il suo indiscutibile talento che si sposava a un fascino non classico ma più tormentato, moderno che si notò anche al cinema quando, scelto da Alain Resnais, fu l’interprete maschile di un film manifesto come L’anno scorso a Marienbad. Accanto al cinema la televisione (L’idiota di Dostoevskij) ma le sue interpretazioni indimenticabili sono tutte teatrali: per esempio Re Niccolò di Wedekind dove, diretto da Egisto Marcucci, recitò con il volto reso pallidissimo dalla biacca, che gli fece vincere premi importanti.
Nella mia memoria conservo la sua immagine come imperatore Adriano nella pièce tratta dal romanzo Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar con il quale iniziò un importante sodalizio con Maurizio Scaparro, ruolo che gli è vissuto accanto per molti anni forse perché in questo personaggio innamorato della bellezza gli sembrava di riconoscersi. Ma lo ricordo anche come un Giacomo Casanova, ormai vecchio, che sogna sempre la trasgressione, interprete delle sue Memorie di cui ha dato un ritratto toccante quasi identificandosi nella tensione erotica del personaggio, lui che è sempre vissuto con una bella donna accanto fino a quando pochi anni fa si sposò con Pia De’ Tolomei. E va ricordato l’incontro con Dario Fo: due che più diversi non potevano essere ma pieni di entusiasmo, a raccontarci in tv un pezzo di storia del teatro italiano. Ed ecco un fermo immagine che lo ritrae accanto a una ritrovata Proclemer in un adattamento del Diario privato di Léautaud, lui e lei diretti da Ronconi, lui e lei due vecchi che si confrontano, si provocano, ripescando un antico desiderio: indimenticabili. Come la sua voce magnifica e immediatamente riconoscibile, la sua presenza catalizzatrice, il suo narcisismo che talvolta l’ha portato a dissipare il suo talento di giocatore provetto di un gioco tutto suo: quello di recitare, ben sapendo che recitare è un gioco.