Il giovane regista Filippo Renda, che ha allestito a Milano “Il mercante di Venezia”, mostra già una sua precisa idea di teatro, un’idea forte, personale, che certamente vedremo ancora all’opera. Ma nel confronto con il testo scespiriano, accanto a trovate azzeccate, si prende qualche libertà eccessiva– Renato Palazzi
Filippo Renda è un giovane regista il cui talento, ancora in fieri, ha dato finora prove alterne, con risultati a volte interessanti, a volte decisamente immaturi. È comunque uno dei pochi teatranti di quell’età – ha solo ventisette anni – ancora interessati a praticare la regia in senso stretto, facendo un lavoro sul testo, sia pure alla sua maniera, e sulla direzione degli attori.
Il mercante di Venezia che ha allestito alla Sala Fontana di Milano, dove è in scena fino al 26 giugno, è probabilmente la più grossa occasione produttiva che gli sia stata offerta finora. Lo spettacolo mi ha suscitato impressioni troppo contrastanti per essere ricondotte a un giudizio unitario. Mi limiterò dunque ad alcune considerazioni in ordine sparso, cogliendole così come si sono via via presentate.
Mi pare che Renda, in primo luogo, abbia una sua precisa idea di teatro, un’idea forte, personale, benché ancora non pienamente sviluppata. Credo che presto lo vedremo ancora all’opera.
Non è male, ad esempio, questa immagine di una Venezia degradata, malsana, nei cui canali scorre uno stagnante mare di plastica, formato da etichette di bottiglie dell’acqua minerale, e popolata da individui loschi sempre intenti a trescare e a ordire affari poco chiari. Non è male neppure l’intuizione di tramutare la trama shakespeariana in una sorta di moderna commedia dell’arte, con maschere, figure fumettistiche, presenze quasi da discoteca.
Ma è una chiave che andava più pensata e approfondita.
È interessante il fatto che Bassanio, l’aspirante alla mano della ricca Porzia, unito però da un ambiguo legame al mercante Antonio, sia visto come una specie di personaggio pasoliniano, un piccoletto riccioluto che parla con accento meridionale e fa inconfondibilmente pensare a Ninetto Davoli.
Posso capire perché gli attori recitino in quella maniera forzata, artificiosa, quasi caricaturale, riempiendo le loro battute di frizzi e lazzi, di eccessi gestuali: devono evocare il ritratto di un’umanità tutta colta al negativo, avida, ipocrita, incapace di sentimenti elevati. Capisco anche che questa interpretazione sia improntata a una gabbia stilistica studiata e in qualche modo rigorosa. Lo capisco, ma non lo apprezzo: dopo dieci minuti quella recitazione così tirata per le lunghe mi sembra francamente insopportabile.
È vero che recitano tutti alla stessa maniera perché per Renda non ci può essere distinzione tra buoni e cattivi, tra raggiratori e raggirati: sono tutti soggetti a una morale degradata, sono tutti sottomessi ai propri calcoli, ai propri fanatismi. E infatti, non a caso, i due antagonisti, Shylock e Antonio, si fronteggiano entrambi a torso nudo, spogliati dei loro abiti, dei loro credo religiosi e dei loro ruoli sociali, tanto simili da apparire intercambiabili. Ma questo primato dei valori economici su quelli umani assume, nella visione di Shakespeare, molte facce, molte sfumature, ed è proprio in questa diversificazione il suo tratto più inquietante. Quelle caratterizzazioni così uniformi sono inutilmente monocordi. Diventano piatte, ripetitive.
E veniamo al modo in cui il regista tratta la vicenda, che è l’aspetto più delicato. Ci sono, se non ho inteso male, alcune piccole manipolazioni del testo per porre in risalto il fatto che Antonio, riguardo al famoso prestito, non agisca per generosità nei confronti dell’amico, ma perché ha in mente degli intenti speculativi. Non credo influiscano più di tanto.
Il caso del finale, invece, è radicalmente diverso, perché lì il plot shakespeariano viene radicalmente riscritto: sopprimere l’happy end, mostrare che Porzia, constatata la prodigalità di Bassanio, prende coscienza dell’inadeguatezza di costui, e lo respinge giudicandolo un ragazzetto dissoluto, è un intervento per niente inopportuno, anzi direi più che lecito. Ma la cosa andava risolta con un taglio, con un’espressione del viso, con un cambiamento di clima. Mettere in bocca al personaggio parole inventate per l’occasione è già abbastanza opinabile, trascende i limiti della regia “critica”. E attribuire a Porzia l’ulteriore intento di lasciare l’idilliaca Belmonte per raggiungere la corrotta Venezia, che – dopo averla provata da vicino – le è apparsa un luogo di vizi e perversioni, ma molto più divertente, è un puro arbitrio.
Tendenzialmente non lo si dovrebbe fare. E se lo si fa bisogna ben chiarire che non si tratta del testo originale, e neppure di semplice adattamento, ma di una libera trasposizione da Shakespeare e non di Shakespeare, il quale una simile emancipazione peccaminosa di Porzia non se l’è mai neppure vagamente sognata. Non è mera questione formale, ma elementare correttezza drammaturgica.
Visto alla Sala Fontana di Milano. Repliche fino al 26 giugno 2016
Il mercante di Venezia
di William Shakespeare
adattamento e regia: Filippo Renda
scene e costumi: Eleonora Rossi
luci: Marco Giusti
con: Francesca Agostini, Sebastiano Bottari, Mauro Lamantia, Beppe Salmetti, Mattia Sartoni, Irene Serini, Simone Tangolo