La memoria che vedi

Dopo aver esplorato luoghi spesso privati, segreti o dimenticati di Milano, la rassegna “Stanze” prende a frequentare i luoghi della memoria. A partire da quelli di un pittore, Tommaso Guarino, che ha aperto la sua casa e i suoi ricordi a Tindaro GranataMaria Grazia Gregori


Dentro a capofitto fra ricordi, immagini forse sogni di ciò che comunemente chiamiamo creazione. È La memoria che vedi, presentato dalla rassegna Stanze: un processo, un divenire talvolta più coinvolgente – se non più affascinante – dell’opera stessa. Una specie di “Spoon river” raccontato in prima persona dal protagonista, dove la creazione – in questo caso la pittura – è visibile, perfino tangibile in tutta la sua forza e la sua necessità. Ma se la creazione si mescola alla vita, non importa quanto reale o quanto immaginaria, nel momento in cui si accetta di entrare dentro un mondo che ci viene rivelato, tutto quello che sentiamo, che intuiamo, immediatamente diventa vero.

Questa riflessione, non so quanto condivisibile, mi si è imposta con prepotenza nella semplice casa di un pittore, Tommaso Guarino, che non conoscevo: una vera sorpresa, emozionante addirittura per certi aspetti. Guarino, uomo terragno dalla testa glabra, si racconta a mezza voce mentre noi stiamo seduti attorno alla tavola della sua sala da pranzo. A pungolarlo c’è Tindaro Granata con sensibilità ed evidente affetto, in un specie di intervista non impossibile ma a zig-zag.

In scena, dunque, ci sono frammenti della vita difficile di un uomo che vive con la malattia accanto, che gli ha compromesso a poco a poco la vista, che l’ha indebolito ma non domato. La madre che l’ha abbandonato, le adozioni e le restituzioni da parte dei genitori adottivi, la ricerca della madre, i lavori fatti per sbarcare il lunario, l’Accademia Revoltella a Trieste, il viaggio a Parigi e l’incontro con la grande pittura internazionale, la frequentazione degli atelier dei pittori in quella città, esperienza che ritorna nelle sue parole e che deve essere stata ricca di suggestioni, una specie di madeleine da cui non staccarsi mai, le prime esposizioni negli anni Settanta. È un flusso di memoria all’apparenza disordinato che va avanti e indietro, talvolta nascondendosi, talvolta perdendosi nei ricordi o cambiando direzione quando non si vuole ricordare. E Tindaro Granata ha fatto bene a mantenere questo andirivieni frammentario, questa libertà che è la sostanza vera di una vita vissuta per l’arte in tutte le sue forme. Una scelta che ha a che fare con la sua storia, che è anche sconfinata nel teatro, la vediamo appesa alle pareti in qualche natura morta, in alcuni ritratti di donna. Ritratti, ma piuttosto dovrei dire “invenzione” della donna come punto di arrivo di desideri e di ricordi del passato e forse del presente. Lì ci ha condotto dividendo gli spettatori in due gruppi una specie di badante-padrona dall’accento rumeno (ma è un’attrice, la spiritosa Francesca Porrini) che interviene nel discorso, offre caffè e pasticcini ai presenti e controlla la casa.

Ma altri stanno arrivando per prendere il nostro posto. E noi scendiamo la ripida scala che porta a una cantina delle meraviglie dove stanno appoggiati al muro e ben visibili molti ritratti femminili. Donne magre, grasse, nude, in costumi orientaleggianti. Donne di un mondo arcaico, dagli occhi misteriosamente oblunghi, con i capezzoli e l’ombelico spesso resi più evidenti da dimensioni fuori norma. In quella cantina domina una donna vestita di bianco (Mariangela Granelli), vera e propria signora di quel luogo. È lei che ci mostra uno a uno i quadri appoggiati al muro, mescolando i più vecchi ai più recenti, dove a dominare sono sempre gli occhi, il vero feticcio della donna di Guarino. Occhi imperiosi o fissi, occhi calmi o selvaggi colmi di una fissità che non ne nasconde l’energia segreta, il mistero, al quale l’attrice cerca di dare una risposta sia pure senza rivelarlo, musa consapevole ma allo stesso tempo quasi nascosta dietro al suo ruolo. Laggiù, nella cantina, la vicinanza fisica all’opera d’arte è, insieme alla voce lenta e bassa di Tommaso Guarino, il momento più emozionante e vero di La memoria che vedi.

Nella foto in alto, da sinistra, Tindaro Granata, Mariangela Granelli, il pittore Tommaso Guarino e Francesca Porrini. Sotto, un quadro dell’artista.

Un quadro di Tommaso Guarino

Un quadro di Tommaso Guarino