Il primo spettacolo di Antonio Latella per il Piccolo di Milano è una fiaba nera che commuove, un viaggio nel mondo dei morti o dei morti viventi, di diavoli intriganti, di una violenta, fisica educazione alla vita. Pinocchio è un ragazzino e il regista un Virgilio di burbera tenerezza. Straordinario Christian La Rosa nel ruolo eponimo ma bravissimi tutti – Maria Grazia Gregori
Figlia di una generazione che si divideva a metà fra chi amava Pinocchio e chi no, non ho mai sofferto, né gioito, per le tribolazioni o per le improvvise felicità di quello che era ed è ancora il burattino più famoso al mondo. Proprio per questo ho molto amato il Pinocchio di Carmelo Bene, così trasgressivo, così inquietante nella sua provocatoria fisicità. Per questo oggi il Pinocchio di Antonio Latella in scena al Teatro Strehler, cosi infelice, così disperatamente alla ricerca di se stesso e di un rapporto vero con suo padre, così inadeguato, sballottato in un mondo ostile abitato da oscure presenze, così poco burattino, costretto a un viaggio nel buio degli inganni che non riesce né a conoscere né a riconoscere mi è sembrato bellissimo, commovente.
Altro che fiaba: quello di Pinocchio nel mondo della cuccagna, dei mangiafuoco, di quelli che ti ingannano e ti fregano soldi è un lungo viaggio nel buio del mondo dei morti, un po’ come ci racconta Janàček nella sua opera Da una casa di morti. C’è una porta e si pensa che al di là di questa porta ci sia qualcosa che non conosciamo, che ci fa paura, ma che vogliamo conoscere e vedere a tutti i costi. In questo viaggio nel mondo dei morti o dei morti viventi, di diavoli intriganti, di una violenta, fisica educazione alla vita, Pinocchio è un ragazzino e Latella è – almeno così a me sembra – un Virgilio di burbera tenerezza. Ad ognuno il suo Pinocchio? Possiamo riconoscere qualcosa di noi stessi in lui, in viaggio nel corso di un tempo che non conosciamo? Forse. Latella non vuole darci risposte, ma ci invita a un percorso, a un viaggio, a una serie di incontri e di fughe, di dolori e di rade felicità che sentiamo nostre.
Così il protagonista di Pinocchio, primo spettacolo di Latella (regista conosciuto anche all’estero e da quest’anno direttore della Biennale Teatro di Venezia) prodotto dal Piccolo, se volete proprio chiamarlo burattino è un burattino di carne, che nasce in un mondo che ci inquieta, “creato” da un ceppo dopo che tutti gli alberi sono caduti. Le prime parole che dice sono “male, male” mentre sta per venire alla luce da sotto un tavolo con Geppetto che si dà un gran da fare a dargli forma fino a quando nasce, finalmente, ed è un ragazzino in carne ed ossa in pantaloni corti, che si porta addosso, incollato al suo corpo, il ceppo da cui è uscito. È la sua forza e la sua dannazione, è la sua eredità perché il Geppetto di Latella non è un buon uomo dolce, pronto a sacrificarsi per il suo pupo, ma lo mette al mondo per egoismo, caricandolo neanche tanto idealmente di molti doveri, primo fra tutti quello di guadagnare e dunque di fargli fare una bella vita, a questo padre.
Il bugiardo in questa storia è Geppetto, a lui dovrebbe allungarsi il naso quando dice le bugie, non a suo figlio. Il naso di Pinocchio infatti cresce solo quando ha fame. E di fame ne ha spesso tanta. Così partendo dal libro di Carlo Collodi pubblicato in volume nel 1883, romanzo cosiddetto di formazione fra i più famosi al mondo scelto nell’edizione Feltrinelli a cura di Fernando Tempesti e contaminandolo con testi più recenti, dal Mulino di Amleto di Santillana a Un bene al mondo di Andrea Bajani, Antonio Latella, anche drammaturgo con Federico Bellini e Linda Dalisi, ci racconta di padri e di figli, di generazioni, della sconvolgente forza sanguinosa di un atto come quello della nascita.
Siamo dunque in un palcoscenico-mondo dominato da un tronco di legno posto in orizzontale che può scendere e salire, a segnare lo spazio e il tempo, quasi a comporre come una gigantesca leva (le scene sono di Giuseppe Stellato) la storia che ci viene presentata; ma forse è anche il simbolo della potenza generatrice del padre, principio di vita. Intanto dalla soffitta, prima lentamente poi sempre più forte, scendono, come se fossero neve, trucioli di legno, che a poco a poco coprono come un enorme tappeto il grande palco dello Strehler dove si muove un’umanità insicura e proterva: una palta infernale in cui rotolarsi, da cui liberarsi, ma sempre presente. Lì possono apparire d’improvviso animali bizzarri come il Grillo, personaggi della commedia dell’arte come Arlecchino, Pulcinella, ma anche una Fata che dovrebbe essere turchina, ma che, in realtà, è una bambina morta a cui viene affidato dal mondo degli adulti, che su di lui non si impegna, lo sbalestrato Pinocchio che va alla ricerca del suo linguaggio compitando faticosamente suoni e parole sul sussidiario.
Uno dei punti di forza di questo Pinocchio è l’interpretazione veramente notevole degli attori a cominciare da Christian La Rosa (foto), straordinario nel ruolo del titolo e bravissimi sono Massimiliano Speziani, un Geppetto al di là di qualsiasi oleografia, e Anna Coppola, una Fata inquietantemente infantile. Ma vorrei ricordare anche Michele Andrei, Stefano Laguni, Fabio Pasquini, Marta Pizzigallo, Matteo Pennese, quasi tutti impegnati in più di un ruolo.
Se visivamente la prima parte di questo spettacolo dalla ragguardevole durata (che si consiglia dai 14 anni in su) ci propone la storia di Pinocchio riletto da Latella, la seconda, come spesso avviene nei lavori di questo regista derivati da testi “classici” è Latella al cubo, in un susseguirsi di ombre, di luci e di suoni, una dura presa di posizione sui rapporti fra adulti e ragazzini, sul menefreghismo, sull’“educazione” alla vita come violenza fisica e sessuale, il mondo nuovo che non ci sarà anche per questo ragazzino freudiano fino alla stupenda scena finale dove padre e figlio si ritrovano di fronte a una fumante minestra e il padre al figlio che gli chiede perdono per la sua assenza, ribadisce che non può amarlo: è morto, tutto è inutile. Realtà o apparenza: poco importa, i ruoli si sono invertiti e Pinocchio si avvicina al padre dicendogli piano piano che è ormai tempo di crescere. Il mondo sarà salvato dai ragazzini? Da vedere.
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Repliche fino al 12 febbraio 2017. Foto © Brunella Giolivo
Pinocchio
drammaturgia Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe
musiche Franco Visioli, luci Simone De Angelis
con Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Christian La Rosa, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo, Massimiliano Speziani
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
Per le tematiche affrontate e il linguaggio utilizzato in alcune scene, la visione dello spettacolo è consigliata dai 14 anni
Ho assistito alla rappresentazione il 10 febbraio. Potente la messa in scena (coerente con lo stile del Piccolo); bravissimi gli attori, grandi interpreti (anche se Marta Pizzigallo ogni tanto sembra fare il verso alla cameriera secca della Marchesini); ottima la regia, con i tempi giusti. Come ben rilevato dal commento, la prima parte è un piacere per gli occhi e per le orecchie: ascoltare e ripetere le parole identiche di un testo, che dovrebbe essere letto e studiato anche alle scuole superiori, accanto ai Promessi Sposi e alla Divina Commedia, è una delizia. Nella seconda parte, molti degli incisi extratestuali mi sono sembrati fuori posto. Mi pare che il testo di Pinocchio presenti già numerosi spunti di riflessione ancora attualissimi, che non vi sia la stretta necessità di introdurne di ulteriori e non necessari. Invece, non ho trovato gratuita l’interpretazione data al ratto dei bambini da parte dell’omino che conduce i carri per il Paese dei Balocchi e del loro destino una volta giuntivi.
Pinocchio è un romanzo lungo e denso, da rileggere periodicamente. Lo spettacolo di Latella è troppo lungo e, nella seconda parte, dispersivo e fin eccessivamente urlato.
Nel complesso sufficiente.