Dopo tanti illustri interpreti e registi, il quarantanovenne direttore della Schaubühne di Berlino ha portato a Milano la sua versione della tragedia scespiriana, affidata a Lars Eidinger. Tionfale esito di pubblico: la violenza è contemporanea anzi addirittura iperrealistica, ma l’impianto dello spettacolo è un’evidente, azzeccata elaborazione della scena elisabettiana – Maria Grazia Gregori
Come rappresentare il personaggio di Riccardo III nell’omonima tragedia di Shakespeare vale a dire il vertice della crudeltà, della violenza, della doppiezza è spesso stato un dilemma. Fra i più celebri ricordo quello di Laurence Olivier con il naso un poco più lungo, una piccola, quasi impercettibile gobba sulla schiena, un cenno appena di zoppia: un personaggio che aveva un suo fascino, i suoi comportamenti non dipendevano tanto dall’aspetto esteriore quanto dalla sua crudeltà ben nascosta, dal fascino del male.
Non molti anni fa, a Milano, al teatro Lirico, uno dei più grandi attori del teatro inglese, Ian Mckellen ne fece un evidente, inquietante genio del male, una specie di dittatore fascista in un’ipotetica Inghilterra degli anni Trenta in divisa militare perché lì a contare era soprattutto l’aspetto politico legato al potere ambito dal signore di Glaucester. Vittorio Gassman giganteggiava e non solo dal punto di vista interpretativo nella tragedia messa in scena da Luca Ronconi negli anni Sessanta: il più grande attore e il più discusso dei registi di allora portarono in scena un personaggio che rappresentava in qualche modo la macchina della storia, di cui era in quel momento un potente ingranaggio indossando una pesante corazza ricca di escrescenze inventate dallo scultore Mario Ceroli e messo su di un cavallo che era come un monumento. E poi Carmelo Bene, Al Pacino, Kevin Spacey…
Il Riccardo III della Schaubühne di Berlino interpretato da Lars Eidinger andato in scena con esito trionfale al Piccolo Teatro Strehler con la regia super di Thomas Ostermeier è un personaggio dalla violenza a fior di pelle, ingigantito dall’apparato sonoro che spesso lo accompagna e dal microfono appeso a un’asta e a un lungo filo che spesso usa per amplificare la voce per poi liberarsene gettandolo quasi sopra la testa degli spettatori. I segni della sua diversità sono evidenti: la testa è come imprigionata in una gorgiera rigida, la sua armatura denuncia l’evidente deformazione, ribadita dal piede deforme e da una violenza espressa senza freni, come senza freni è il suo denudarsi.
La violenza è contemporanea anzi addirittura iperrealistica, ma l’impianto dello spettacolo è un’evidente, azzeccata elaborazione della scena elisabettiana: plateau che supera l’arco scenico cosparso di sabbia che scende verso la platea, mentre gli intrighi, le uccisioni, i tradimenti dei personaggi si svolgono in una scena (di Florence von Gerkan) dentro un contenitore a due piani con aperture da cui di volta in volta appaiono i personaggi. Va inoltre sottolineata una scelta che sta evidentemente a cuore al quarantanovenne regista: Riccardo è uno di noi, tant’è che arriva in scena dalla platea e che frequentemente si rivolge alle prime file degli spettatori per commentare ironicamente le sue azioni provocando parecchie risate. Gli sgozzamenti non si contano e talvolta i cadaveri vengono trascinati in alto da un filo come fossero animali appena macellati. Ma morire è maledettamente difficile come mostrano i nobili personaggi rinchiusi nella prigione della Torre di Londra o possono morire all’improvviso credendo magari di aver composto la terribile guerra fra Lancaster e York detta “delle due rose” per via del simbolo della bandiera dei due avversari: rosa bianca quello dei Lancaster e rosa rossa quella di York. Un mondo sospeso su di un baratro fra sangue e distruzione che si fermerà solo con l’avvento di Enrico VIII Tudor.
La forte impronta della regia di Ostermeier la ritroviamo non solo nella scelta di mostrare un Riccardo volgare, violento, spinto a denudarsi volentieri mostrando anche il sedere nudo nella scena della seduzione di Donna Anna davanti al cadavere del marito di lei, ma anche dandogli le parole per dirlo grazie alla traduzione e all’adattamento di Marius von Mayenburg che ha ridotto il testo, sacrificando un po’ i ruoli femminili e concentrandolo sul personaggio di Riccardo. Così succede anche nel finale dove non ci sarà la gran battaglia che vedrà la sua sconfitta e la sua morte con la celebre battuta “il mio regno per un cavallo”. Questa battaglia Riccardo la combatterà quasi in sogno dentro se stesso,un incubo in cui ci pare di percepire la parola “cavallo” e alla fine sarà lui, tirato su verso l’alto a pendere appeso per un piede. Il resto è silenzio.
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano
Richard III
di William Shakespeare, traduzione Marius von Mayenburg
regia Thomas Ostermeier
scene Jan Pappelbaum, costumi Florence von Gerkan, luci Erich Schneider
musica Nils Ostendorf, video Sébastien Dupouey
drammaturgia Florian Borchmeyer, burattini Ingo Mewes, Karin Tiefensee
con Lars Eidinger, Moritz Gottwald, Eva Meckbach, Jenny König, Sebastian Schwarz, Robert Beyer, Thomas Bading, Christof Ertz, Laurenz Laufenberg, Thomas Witte (batterista/percussionista)
produzione Schaubühne Berlin