Visti entrambi al Festival delle Colline Torinesi, lo spettacolo del collettivo tedesco She She Pop e il monologo diretto da Valter Malosti con una bravissima Roberta Caronia sono tra le proposte più intriganti a cui abbiamo assistito – Maria Grazia Gregori
Ci si chiede: ma cosa mai saranno questi 50 grades of shame (foto sopra) come dice il titolo del nuovo spettacolo delle She she Pop andato in scena con successo a Torino nel corso della ventiduesima edizione del festival delle Colline Torinesi? Niente di pruriginoso ma un’indagine a 360 gradi sulla sessualità, sull’uomo e sulla donna che s’interrogano e vivono ogni giorno sulla propria pelle interrogativi e pulsioni inquietanti. In tredici lezioni pensate come singoli momenti di un unico affresco, simili a delle lezioni accademiche, il gruppo tedesco, rimpolpato nel corso degli anni rispetto a quando lo si vide la prima volta al Festival di Santarcangelo, da una notevole presenza maschile e da una sedicenne new entry turca si pone domande giostrate sul filo del rasoio di un’urticante ironia, maledettamente seria e vera, su cosa significhino parole come sesso, donna, uomo, pudore, peccato, pulsione erotica senza mai scadere nella banalità, nell’ovvio. Tutto dentro una performance che si giova anche di qualche improvvisazione e che ci riporta alla mente il Bertolt Brecht del periodo espressionista non tanto per la scansione in 13 scene o stazioni del nostro scontento, ma proprio come ballata sul senso della vita e del perché della cose.
50 grades of shame, dunque, è un itinerario personale, politico, sociale sul ruolo della donna, dell’uomo di fronte a un sentimento, a un’angoscia, a un’inquietudine che li rende più nudi. Come talvolta accade nei loro spettacoli queste domande spiazzanti hanno dei solidi punti di riferimento in testi appartenenti ad altre epoche o ad altri ambiti. In questo caso le She she pop si muovono all’interno di due testi diversissimi fra loro: Il risveglio di primavera di Frank Wedekind e il fortunato romanzaccio di E.L.James Cinquanta sfumature di grigio. Due riferimenti agli antipodi ma paradossalmente non incongrui qualora si voglia prenderli entrambi – per così dire – in contropiede: dall’erotismo più pruriginoso allo stupore doloroso dell’innocenza verso qualcosa di cui non si conoscono neppure le parole per esprimerlo.
Nello spettacolo del gruppo tedesco l’incandescente materia viene immersa in una beffarda demistificazione e le 13 lezioni che lo scandiscono si svolgono quasi come delle lectio magistralis tenute da attori che indossano una lunga palandrana pseudo accademica mentre uno schermo riproduce la loro immagine, ma come destrutturata: una testa di donna con un corpo, un sesso, un sedere di uomo oppure viceversa e mentre delle telecamere mostrano come questo avvenga ai lati del palcoscenico noi assistiamo in diretta al togliersi delle braghe, a mostrare i seni ecc dei diversi protagonisti mentre gli altri, quando non sono impegnati in questa costruzione di un essere che non esiste, si trasformano a loro volta in pubblico. A dare una dimensione beffardamente onirica alle 13 lezioni e a scandire lo spettacolo ci sono le musiche di Santiago Blaum che creano una grande empatia fra ciò che si vede e ciò che si sente. Anche se ironico e dissacrante 50 grades of shame, al di là di qualsiasi voyeurismo, è una coinvolgente, geniale ballata sostanzialmente triste che trova uno dei suoi punti più alti nella scena in cui il suicidio di Moritz, personaggio del Risveglio wedekindiano, sia pure appena accennato, viene come risucchiato dentro un’irrefrenabile, derisoria danza macabra.
Fra le molte e interessanti proposte di un Festival come quello delle Colline torinesi che piace pensare non solo apprezzato ma anche sicuro della propria esistenza a Torino sua città “natale” mi ha molto intrigato – più dal punto di vista teatrale che drammaturgico – il monologo Ifigenia in Cardiff che Valter Malosti ha messo in scena con intelligenza e sensibilità costruendolo attorno alla bravissima Roberta Caronia (foto sotto) che ci racconta in crescendo la tragica storia di Effie che abita a Splott vicino a Cardiff, Galles. Una storia miserabile di degrado, droga, ubriachezza, povertà vissute con amici occasionali da una donna che crede di incontrare l’amore con un soldato reduce dall’Afganistan che però l’abbandona con una figlia in grembo. Peccato che l’autore, Gerry Owen, costruisca un testo che non convince facendoci rimpiangere non solo Sarah Kane ma anche Arnold Wesker. Ma questo personaggio, questa Ifigenia vittima di una società spappolata soprattutto maschile quanto l’Ifigenia classica lo era della violenza guerresca degli Achei, grazie all’attrice, si ricorda.