Un Don Chisciotte (troppo) stravagante sotto il segno di Baryshnikov

Il Ballo dell’Opera di Roma inaugura la stagione con la benedizione di Mikhail Baryshnikov che affida a Laurent Hilaire il compito di rileggere la sua versione del classico, e ne determina la produzione con due artisti a lui associati. Ma che non rendono il favore alla danza- Silvia Poletti.

L’apertura della stagione 2017/18 della rinascente Opera di Roma, che sotto il sovrintendente Carlo Fuortes sembra aver trovato il tocco magico, è stata affidata a un ‘gran balletto’: Don Chisciotte. Nella patria del belcanto e della maladanza fatto del tutto eccezionale e di per sé già meritevole di notizia. Ma qui ancor più giustificato dal nome del nume tutelare dell’intera operazione, il supremo Mikhail Baryshnikov, che non solo ha dato il placet affinché la compagnia romana diretta da Eleonora Abbagnato avesse una versione coreografica liberamente ispirata a quella ormai mitologica che lui stesso creò per l’American Ballet Theatre nel 1978; ma  soprattutto ha chiesto che la produzione venisse firmata per scene, luci e costumi da due artisti a lui cari: l’illustratore russo-americano Vladimir Radunsky famoso per i libri per l’infanzia e le creature animalesche fantasiosamente abbigliate e il light designer A.J. Weissbard, collaboratore di Bob Wilson con cui Baryshnikov ha lungamente collaborato.

Così se la partitura coreografica, snellita di qua, adattata di là, rispettata costà si manteneva comunque nei binari della tradizione russo-sovietica con tutti i momenti salienti rispettati compresa la virtuosistica e rara danza delle coppe di Basilio ( ne aveva cura un signore come Laurent Hilaire, grande étoile parigina dell’epoca d’oro di Nureyev, ora direttore della seconda compagnia moscovita, il Balletto dello Stanislavsky Nemirovich Danchenko ) il look dello spettacolo ha assunto una fortissima cifra autoriale di ricercata originalità.

Nei balletti tardottocenteschi a grand spectacle come è Don Chisciotte la regola aurea è però il perfetto equilibrio tra forma e contenuto: la coreografia ( che qui è scattante, veloce, piena di impervi virtuosismi accademici, ma anche puntellata di danze di carattere fantasiose, danza classica pura  e romantica e briose e fondamentali scene pantomimiche di taglio comico-grottesco) deve sposarsi bene con l’apparato visivo e questo deve contribuire a dare colore e caratterizzazione, ma soprattutto esaltare la danza. E purtroppo questo non avviene nella nuova confezione romana.Quasi ad  enfatizzare l’aspetto favolistico e fantasioso dello spettacolo (inteso come icona del balletto ottocentesco,  con la sua grazia ingenua ormai anacronistica) le scene  sembrano addirittura vergate da mani bambine, con i loro segni grossi, le proporzioni incerte e i colori squillanti dei pastelli ( giallo limone, rosso arancio) ed effetti ‘à la Wilson’ che ben conosciamo. Ma se qui il grafismo surreale può funzionare, con i costumi la faccenda si fa molto più complicata.

L’eccesso di fantasia coloristica e di forme infatti qui distrae e confonde. Possono passare i pantaloni alla zuava oversize, con tanto di malizioso sesso color cobalto disegnato tra gli sbuffi per il cicisbeo Gamache il fez e hot pants a palloncino e pois per l’oste Lorenzo – ruoli da buffi per antonomasia- ma la cosa si fa complicata per gli altri. In un pot pourri di fogge e linee alla rinfusa la ballerina Mercedes indossa una calzamaglia nera dal collo ai piedi, con gonnellona bianca, che rimanda al balletto neoclassico  anni ’40 e la parrucca con cipolla rossa da lontano la fa apparire come uscita dalla doccia con asciugamano in capo; le amiche di Kitri vestono analoghe fogge in colori acidi a chiasmo e parrucche nere con doppi chignon che ricordano la Minnie disneyana.

I tutù delle damigelle del gran pas – una sorta di meringhe bianche a strati- sono così mal concepiti in tagli e proporzioni che danneggiano le linee delle danzatrici, accorciando loro il busto e rendendole goffe. Kitri appare nel primo atto in un tutù romantico rosa confetto; Basilio, squattrinato barbiere, ha un corpetto damascato da principe, nero e smeraldo con calzamaglia bianca che ‘spara’ ( e il bianco, si sa in danza è il colore più difficile da portare), mentre nel celebre pas de deux finale i due sposi sono incartati in oro e Swarovsky.

Peccato, gran peccato, perché oltre a perdere gran parte del colore ispanico del lavoro ( che riappare solo a tratti mentre la musica ha esplosioni folcloriche) si creano appunto problemi alla danza. Forse ai due nuovi designers avrebbe giovato visitare la mostra romana di Picasso- lui sì interprete  contemporaneo della sua Spagna per i Balletti Russi di Diaghilev: nel suo caso però, onor del vero, danza e costumi erano coevi e quindi dialetticamente ideati di pari passo con le necessità di Massine; qui invece le esigenze della coreografia sono storicizzate e imprescindibili, e ignorarle è grave.

Sul fronte interpretazione la compagnia romana sta confermando un trend positivo e si vede il lavoro svolto in sala: briosi i toreri capeggiati da Michele Satriano, buone le file delle Driadi guidate dall’eccellente Amorino Flavia Stocchi, fluida, aggraziata, pulitissima; divertente e brioso Manuel Paruccini come Gamache. La neo-etoìle Rebecca Bianchi non ci pare invece adatta al ruolo virtuosistico e piccante di Kitri: la sua prova è risultata non più che corretta ma senza quella verve spumeggiante che il ruolo pretende.

Da par suo il ventiduenne Angelo Greco, che il Teatro alla Scala si è fatto scappare due anni fa con altri due gioielli della corona (Jacopo Tissi ora solista al Bolshoi e Carlo di Lanno come Angelo principal a San Francisco) ha tutte le doti per essere un ottimo Basilio, e non solo. Bello e spontaneo, con una tecnica virtuosistica importante ma declinata con souplesse e padronanza; buon partner nei difficili lifts. Lo attendiamo per nuove imprese, così come i ballerini romani che hanno davanti a sé una stagione impegnativa la cui prossima tappa è nientemeno una presenza al Festival International de la Danse di Cannes tra pochi giorni.

Visto al Teatro dell’Opera di Roma il 19 novembre 2017. Repliche 21, 22,23 novembre 2017

Le foto sono di Yasuko Kajeyama cortesia Teatro dell’Opera

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