Trainspotting

Nell’affrontare la materia infida, livida, respingente ma a tratti anche sottilmente ironica del celebre romanzo di Irvine Welsh, Sandro Mabellini torna a linguaggi teatrali destrutturati e informali che gli sono congeniali. Tutti bravi i quattro interpretiRenato Palazzi

C’era un foltissimo pubblico prevalentemente composto di trentra-trentacinquenni, al Teatro i di Milano, per assistere a Trainspotting, l’adattamento teatrale del celebre romanzo di Irvine Welsh firmato dal drammaturgo quebecchese di origini libanesi Wajdi Mouawad, tradotto da Emanuele Aldrovandi e messo in scena da Sandro Mabellini. Si direbbe che in questo caso sia scattato una sorta di riconoscimento generazionale, un’ identificazione – si spera – non tanto nella tossicodipendenza orgogliosamente rivendicata dai protagonisti, quanto nel mito di una versione cinematografica che ha suscitato comunque una solidarietà nei confronti di questi coetanei sbandati, abbandonati al proprio destino, senza radici né punti di riferimento.

Mark, Sick Boy, Tommy, Begbie, Alison, i personaggi della vicenda, esprimono infatti una estraneità totale e assoluta rispetto ai valori della società di cui fanno parte, quella che potremmo definire la Gran Bretagna post-thatcheriana degli anni Novanta, inquadrata dai più sordidi locali della periferia di Edimburgo, e dai loro luridi cessi. Non hanno aspirazioni né ideali, sono completamente disinseriti. Non lavorano, anzi si ingegnano a inventare sempre nuovi espedienti per essere respinti dall’ufficio di collocamento. Si bucano e scopano, scopano e si bucano e poi vomitano, pisciano, defecano, non necessariamente nelle sedi deputate. Significativamente, lo spettacolo si apre con la folgorante descrizione, da parte di Mark, di un suo risveglio nella casa di una ragazza, fra lenzuola trasformate in un’orrenda poltiglia di liquami corporei.

Si potrebbe pensare che stiano attuando una fuga dalla realtà. Invece, per uno sconquassante paradosso, loro sono fermamente e pervicacemente convinti che la realtà sia questa, che la sola e vera possibile realtà sia questa, che l’unico atto che richiede dedizione e responsabilità sia bucarsi coscienziosamente. «Cercare di gestire un problema di droga. È questa la sfida più grande. Voglio dire… questo è reale». Tutto il resto, quelle che per gli altri sono i le tragedie della vita, il fratello soldato di Mark ucciso in un attentato nell’Irlanda del Nord, la bambina neonata di Alison che muore per l’incuria della madre, sono un sottofondo sfumato, lontano, atrocemente impalpabile: il soldato ha pagato la stupidità di servire il proprio paese, la bambina sarebbe morta comunque, perché si sa che i bambini muoiono.

Nell’affrontare questa materia infida, livida, respingente ma a tratti anche sottilmente ironica, e non priva dei risvolti di un’incongrua tenerezza, Mabellini torna a quei linguaggi teatrali destrutturati, informali che gli sono più congeniali, uno stile rigorosamente anti-naturalistico, lontano da qualunque convenzione rappresentativa: si parla ad esempio incessantemente di aghi e di buchi, ma emblematicamente non appare una sola siringa sulla scena. L’azione è ridotta ai minimi termini: tutto è evocato, ricostruito verbalmente. L’unico elemento scenografico, oltre a un piccolo televisore, è una tenda da campeggio in cui gli inquieti personaggi si infilano, a un certo punto, come animali feriti nella tana, quasi a voler sottrarre il loro dolore alla vista.

Gli attori, alzandosi di volta in volta dalle loro sedie, avanzano verso il proscenio per esporre direttamente al pubblico pensieri e situazioni, per lo più parlando dentro a dei finti microfoni che sono di fatto delle piccole luci. Più che interpretarli, indossano i loro personaggi per il tempo necessario a dare loro volto e voce, li assumono in un certo senso dall’esterno, ma senza perdere intensità e forza emotiva. Si direbbe, anzi, che questo andamento attentamente decomposto si adatti meglio agli umori del testo, né evidenzi la carica ferocemente distruttiva.

Sono tutti bravi. Anche Valentina Cardinali, che ha un ruolo all’apparenza marginale, poche battute, ma dette con strategica sapienza, anche Riccardo Festa, che si sdoppia nelle due figure di Tommy e di Spud, anche Marco Bellocchio, che tratteggia con istrionica esuberanza il brutale Begbie. Ma mi pare che Michele Di Giacomo, col suo aspetto perennemente fuori posto, con la sua cadenza vagamente regionale, ma appena accennata, e non ben definibile, ci metta più disinvoltura nel fare di Mark una specie di maschera sonora e gestuale, molto efficace e ben costruita.

Visto a al Teatro i di Milano. A Roma, Teatro Brancaccino, dal 5 all’8 aprile 2018. Foto Manuela Porchia

Trainspoting
di Irvine Welsh
versione di Wajdi Mouawad
traduzione di Emanuele Aldrovandi
uno spettacolo di Sandro Mabellini
costumi : Chiara Amaltea Ciarelli
con: Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali, Marco Bellocchio
dal 5 all’8 aprile, Roma, Teatro Brancaccino