Una tranquilla serata per il virtuoso Forsythe

Una serata semplice e abbagliante di intelligenza e bellezza. Dove l’inesauribile capacità creativa di William Forsythe mette in stretto dialogo passato e presente e così segna una strada possibile per il futuro della coreografia. –Silvia Poletti

Due date secche, la prima al Teatro Grande di Brescia e la seconda, dieci giorni dopo, al Teatro Municipale Valli di Reggio Emilia ( dove lo abbiamo visto) per uno spettacolo folgorante per bellezza, intelligenza compositiva, filosofia di lavoro, esecuzione. Peccato per chi non era a gustarsi, nel vero senso della parola, l’esperienza intellettuale e sensitiva elaborata da William Forsythe insieme a sette suoi ‘antichi’ sodali ( tutti ex danzatori della Forsythe company, ormai veleggianti tra i quaranta e cinquanta): A Quiet Evening of Dance – una semplice  serata di danza, ma solo nelle premesse, e piuttosto, nella sostanza, un supremo, ‘virtuosistico’ saggio di cosa può essere la danza di questo nostro tempo. Perché Forsythe, che nel corso di quarant’anni di carriera ha compiuto una vera e propria rivoluzione (intima ed esteriore ) nei confronti dei codici ( in primis quello di formazione, l’accademico), arrivando  a mettere in atto l’azzeramento e la palingenesi, con questa serata non solo sintetizza gli esiti ( attuali) della sua costante ricerca ma indica la strada a possibili, luminosi sviluppi tecnici e stilistici di un linguaggio capace di inesauribile rinnovamento.

Ma come e dove trovare nuovi spunti di riflessione? Dopo aver attinto a speculazioni filosofiche, tecniche narrative, teorie architettoniche, la Weltaanschaung labaniana, il vuoto nostalgico di Beckett e i dinieghi ribelli del Judson Dance Theater, Forsythe è tornato, semplicemente, letteralmente, ai codici – a partire da quelli della danza barocca, nientemeno. E li ha messi a confronto – o per meglio dire in dialogo, o ancora meglio in osmotico scambio- con l’ultima frontiera della breakdance ( ma anche yoga e danza contemporanea) incarnata nell’incredibile Rauf ‘RubberLegs’ Yasit.

Ne è sortito un flusso ininterrotto di creatività coreutica che attesta l’assolutezza della danza ( e della coreografia) in quanto tale. Per ribadire il concetto Forsythe immerge i primi quaranta minuti di spettacolo in un silenzio quasi totale. A tratti, lievi cinguettii di uccelli dialogano anch’essi con le cascate di note di un estratto da Natura Pieces from piano di Morton Fieldman, quasi a conferma  che quello che vediamo e sentiamo, qui e ora, è esattamente una continua rifrazione tra reale e artefatto, tra alto e popolare, tra accademia e strada: entrambi gli estremi dialogano, si fondono, ripartono per nuove perlustrazioni. Non a caso si procede per lo più per duetti/dualismi:  nel primo tempo ci sono un Prologo, un Catalogo, un Epilogo e un Dialogo ( creato  nel 2015 con Brigel Gjoka e Riley Watts) e dal momento che Forsythe è anche un fine etimologista quei titoli danno la chiave di ciò che stiamo osservando.

E se nel Prologo appunto Parvaneh Scharafaili e Cyril Baldy creano volute e torsioni in cui i corpi intrecciandosi incarnano una concentrata intimità che catalizza gli occhi,  è proprio nel Catalogo affidato a Jill Johnson e Christopher Roman che si percepisce la logica della serata. Catalogo in quanto elencazione logica e ordinata secondo criterio prestabilito: e difatti ecco i due squadernare con misura e nozione, partendo dal minimale e arrivando al massimale, i potenziali vettori, i potenziali ritmi, le potenziali energie con i quali le articolazioni (mani, polsi, gomiti, braccia, spalle etc) possono creare visioni di dinamiche nello spazio – passando da un gesto quotidiano a un port de bras al gomito, inconfondibilmente barocco e poi tornando a una disarticolazione. In un flusso continuo, e in serrata dialettica, tra apparizioni e sparizioni i corpi assumono posizioni classiche e poi si sfaldano quasi liquefatti, o schizzano in avanti con un flash d’energia. L’abbagliante esposizione dei due interpreti si espande nell’Epilogo dove è lo spazio ad essere esplorato dalle due coppie e da Rauf che con la sua incredibile qualità di danza, melting pot di varie discipline ,e una strepitosa capacità di amalgamarsi con gli altri, rafforza l’assunto della serata.

La quale esplode definitivamente nella seconda parte: Seventeen/Twenty One. La grazia barocca e aulica di Rameau accompagna ora le danze. Ecco che quello esposto prima si esplicita mirabilmente ora. Garguillades e pas de bourrées barocche, frammenti del neoclassico balanchiniano, popping e locking, release e improvvisazione. In tee-shirts e sneakers, o canotte e guanti colorati dagli abbinamenti vari, davanti a un fondale scuro minimalista  i sette inanellano trii e duetti e ancora ensemble. Danzano così naturalmente, così inevitabilmente, così brillantemente – mostrandoci per esempio le similitudini di un croisée accademico  con  un movimento sincopato nel locking – che a tratti si rischia di essere sopraffatti da tanta bellezza : bellezza del genio di un autore che ci sta dando un’ulteriore lezione di prassi ma anche testimonianza eclatante della sua consapevolezza amorosa di fare parte di una storia in costante evoluzione.

E anche però bellezza di questi interpreti consapevoli e presenti, devoti e virtuosi – di un virtuosismo quasi più intellettuale che fisico, ma non per questo meno emozionante.

Visto al Teatro Municipale Valli, Reggio Emilia il 13 febbraio 2019