Dopo “Le intellettuali” e “L’avaro”, Arturo Cirillo firma con la consueta finezza e intelligenza la regia del suo terzo Molière, calando il testo in un’atmosfera farsesca alla Petito in cui però ben si intravede il fondo gelido, sostanzialmente amaro della vicenda. Bravi gli attori, con lo stesso Cirillo in testa, e ingegnoso l’apparato scenografico – Renato Palazzi
Fra tutte le opere molieriane, La scuola delle mogli è forse quella che mescola più strettamente la commedia non diciamo alla tragedia, ma almeno a un grumo cupo di maniacalità tanto feroce quanto sottilmente doloroso. In questi ultimi anni, infatti, è parsa prevalere una linea interpretativa che tendeva a metterne in risalto i risvolti più oscuri e inquietanti. Ora Arturo Cirillo, che affronta Molière per la terza volta, dopo Le intellettuali e L’avaro (e sempre sostenuto dalle illuminanti traduzioni di Cesare Garboli) con la consueta finezza e intelligenza tende a ricondurre il testo alle strutture in qualche modo primarie della farsa, seppur si tratti di una farsa “nera”, dal fondo gelido, sostanzialmente amaro.
Nell’approccio del regista-attore napoletano la vicenda di Arnolfo, il protagonista che, ossessionato dal timore dell’infedeltà coniugale, alleva fin dall’infanzia una ragazzina, Agnese, tenendola segregata e immersa nell’ignoranza più totale nella speranza di farne una futura moglie virtuosa, viene spinta verso un clima da pantomima surreale e addirittura da autentico balletto. Tutti i personaggi maschili indossano dei costumi buffamente arabescati (ideati da Gianluca Falaschi) che ne fanno delle specie di burattini in carne e ossa, maschere senza luogo e senza tempo. La coppia dei due servi-carcerieri provvede invece a introdurre dei vaghi accenti dialettali che conferiscono al tutto un’impronta sottilmente partenopea, alla Petito.
Il cuore dell’intera operazione resta comunque l’ingegnoso apparato scenografico di Dario Gessati, una casetta dai tratti sommari, come uno schizzo infantile, che girando su se stessa svela una scaletta che conduce a una specie di gabbia in cui Arnolfo tiene rinchiusa la sua vittima, che può guardare fuori solo attraverso una minuscola finestrella: e questa sinistra cameretta-cella, arredata con mobili rosa da bambina, è l’esatto equivalente del vestitino rosa confetto di Agnese, un vestitino da bambolotto, come da bambolotto caricato a molla sono la sua fissità meccanica, le sue posture innaturali.
Dietro l’andamento buffonesco dell’azione, dietro il tono un po’ pedante delle dissertazioni sulle corna pervicacemente sostenute da Arnolfo con l’amico Crisaldo, questa sopraffazione esercitata da un uomo maturo nei confronti di una giovane creatura inconsapevole svela ben presto la sua vena perversa, che rimanda a tanti atroci misfatti odierni. Non che Arnolfo tenga Agnese prigioniera per abusarne, per sfogare su di lei degli istinti morbosi. Ma proprio questa assenza di desiderio, questo ridurre tutto a freddo calcolo rende il suo esperimento ancora più aberrante.
E tuttavia, quando quel disegno folle, disumano gli si ritorce contro a causa del primo ragazzotto su cui Agnese per caso mette gli occhi, quando lo sforzo, l’obiettivo di una vita gli si vanifica all’improvviso tra le mani, Arnolfo piomba in un dolore vero, in un senso di assoluto fallimento. La sua smania di essere amato, la sua incongrua incapacità di comprendere perché lei non lo ami, assume un che di patetico, di straziante. E forse è in questa inadeguatezza emotiva che si rivela realmente la sua patologia.
Lo spettacolo funziona come un piccolo meccanismo perfetto anche grazie all’esuberante prova degli attori: Cirillo tratteggia un Arnolfo dalle molte sfumature, un orco truce e disperato, condannato a sprofondare nella propria solitudine. Valentina Picello è un pupazzetto che si muove a scatti, che recita soprattutto coi gesti, con quelle manine agitate nell’aria, una figuretta smarrita che riesce infine a riscattarsi come donna. Accanto a loro, oltre a Giacomo Vigentini, trasognato spasimante, hanno un ruolo fondamentale i cinici servi, Marta Pizzigallo e Rosario Giglio, che si sdoppia efficacemente nei panni di Crisaldo.
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Repliche fino al 10 marzo 2019. Foto Luca Dal Pia
La scuola delle mogli
di Molière
traduzione: Cesare Garboli
regia: Arturo Cirillo
scene: Dario Gessati
costumi: Gianluca Falaschi
luci: Camilla Piccioni
musiche: Francesco De Melis
con: Arturo Cirillo, Valentina Picello, Rosario Giglio, Marta Pizzigallo, Giacomo Vigentini
produzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Stabile di Napoli