Stimolato trent’anni fa dalla visione del “Faust” di Strehler, Federico Tiezzi ha finalmente coronato il progetto di portare in scena la fascinazione di un testo immortale. Una sfida affrontata con un rigore poeticamente formidabile – Maria Grazia Gregori
Succede a registi con una loro poetica ben radicata di subire, prima o poi, la fascinazione del Faust di Goethe, un capolavoro certo, ma che solo all’idea di metterlo in scena fa tremare i polsi. Federico Tiezzi racconta di aver coltivato questo desiderio da ben trent’anni, da quando al Teatro Studio vide in scena il Faust di Strehler. Trent’anni sono un bel po’ di tempo, ma l’idea è cresciuta dentro di lui fino ad ora. Un’idea che mescola insieme attori ormai affermati a un gruppo di giovani usciti dalla scuole di teatro e che hanno frequentato i suoi laboratori. Anche Strehler mise in scena i giovani della sua scuola, trent’anni fa: un atto di coraggio che vale ancora oggi per Tiezzi. Anche qui come là la versione italiana su cui hanno lavorato gli attori è firmata da un drammaturgo interessante come Fabrizio Sinisi che con Tiezzi ha condiviso laboratori e avventure. Lo stesso fece Strehler firmando lui stesso la traduzione con Gilberto Tofano. Le analogie, però, si fermano qui.
Quasi sempre si pensa al Faust come a un lungo viaggio nell’oscurità della mente e del cuore prima di arrivare alla folgorazione finale della morte del protagonista e della ascesa al cielo della sua anima che gli è stata salvata “per una paroletta”, dice Mefistofele. In Scene da Faust (tredici capitoli della prima parte) tutto è al contrario nel Faust di Tiezzi: qui trionfa il candore del bianco assoluto dalle altissime porte-quinte che scandiscono il palcoscenico del Fabbricone di Prato da cui entrano ed escono attori trasportando oggetti anch’essi bianchi. L’inizio è un prologo sul prologo: in scena sta un gruppo nutrito di giovani anch’essi vestiti di bianco occupati a fare un esercizio di concentrazione per fare levitare Faust: se l’esercizio riuscirà – dice una scritta – lo spettacolo sarà finito altrimenti avranno inizio Scene da Faust.
Ovviamente è così e con un rigore poeticamente formidabile Tiezzi scandisce tredici scene della Prima parte della grande opera partendo da un’idea che è una magnifica intuizione: Faust, che cerca con fatica e vorrebbe raggiungere l’immortalità con il proprio lavoro e Mefistofele sono, in realtà, frutto della stessa pianta: il Bene e il Male qui hanno le stesse radici, sono fatti della stessa pasta; come già apparve a Grotowski in un suo giovanile Faust (di Marlowe però) i due fanno di due uno: sono figli di un medesimo desiderio di potenza, di andare oltre i confini.
Ecco allora nella prima scena con i tre arcangeli, Dio e Mefistofele in un incontro che è quasi una sfida: Mefistofele precipiterà nella rovina quell’uomo che cerca senza sosta di dare un senso alle cose portandolo giù nell’inferno con sé. Nel Faust di Tiezzi Dio non c’è: è un grande specchio sbrecciato in cui è impossibile specchiarsi mentre intorno a lui i tre arcangeli girano a testa in giù spogliati a vista e rimasti in perizoma, ovviamene bianchi, a cantare le lodi del Signore. Del resto qui solo Mefistofele e Faust vestono di un altro colore (nero) e così la strega nel suo antro accompagnata da un coro di attori-infermieri che si rivelano avere teste di scimmie, e che propineranno a Faust una trasfusione di fisicità. Tutto in quel mondo sembra un gigantesco obitorio, con lettini che vanno e che vengono e con strumenti medici ben in vista.
Dopo questa trasfusione Faust è pronto a conoscere il piacere, l’amore, quando incontra una giovane ragazza, Gretchen o Margherita poco importa, che, catturata dentro questo girone infernale della passione che Faust le ispira, uccide prima la madre e poi annega il figlio nato dal loro amore e per questo salirà al patibolo. Questa scena che è quella finale (nello spettacolo, come detto, si rappresentano tredici capitoli del testo più il Prologo) viene trasformata da Tiezzi in un assolo delirante della giovane che vive tutto nell’attesa della morte, in prima persona, immaginandosi che Heinrich, cioè Faust, si palesi nella sua cella (ma è solo un sogno o un incubo se preferite) fino alla commovente (per me) battuta finale: “Heinrich non dire che con Gretchen ci sei stato” che chiude la parabola fatale di questa ragazza vittima di un gioco e di un amore più grande di lei.
Un Faust, quello di Tiezzi, sorprendente per la libertà dell’approccio, per la misurata fantasia figurativa così importante da fare assomigliare la visione a una casa dei morti, che ci costringe a pensare – sull’onda di una colonna sonora che mescola Mahler a Penderecki, Badalamenti alla meravigliosa “Lacrimosa” di Preiswer – chi siamo noi catturati in questa storia scandita con rigore impagabile, dove a contare è la coralità del gruppo degli attori.
Il Mefistofele di Sandro Lombardi che entrando in scena scopriamo seduto in platea con un saio da penitente e capo coperto è ironico, sottile, inquietante, perfetto. Sono contenta di avere ritrovato Marco Foschi che è Faust – un bravo attore che mi sembrava essersi un po’ smarrito – che ci offre un Faust pieno di verità; Leda Kreider (Gretchen, Margherita), sensibilissima nel suo delirio finale avvolta di veli bianchi, non si lascia sfuggire questa gran scena che Tiezzi le offre. Ottima è la coralità di tutti i giovani attori da Dario Battaglia, Alessandro Burzotta, Nicasio Catanese, Velentina Elia, Fonte Fantasia, Francesca Gabucci, Ivan Graziano, Luca Tanganelli a Lorenzo Terenzi che si muovono alla perfezione guidati dalle coreografie di Thierry Thieû Niang.
Visto al Fabbricone di Prato. Repliche fino al 19 maggio 2019. Foto Luca Manfrini
Scene da Faust
di Johann Wolfgang von Goethe
versione italiana di Fabrizio Sinisi
regia e drammaturgia di Federico Tiezzi
con Dario Battaglia, Alessandro Burzotta, Nicasio Catanese, Valentina Elia, Fonte Fantasia, Marco Foschi, Francesca Gabucci, Ivan Graziano, Leda Kreider, Sandro Lombardi, Luca Tanganelli, Lorenzo Terenzi
scene e costumi di Gregorio Zurla
luci di Gianni Pollini
regista assistente Giovanni Scandella
coreografo Thierry Thieû Niang
canto Francesca Della Monica
produzione Teatro Metastasio di Prato, Compagnia Lombardi-Tiezzi
in collaborazione con Fondazione Sistema Toscana/Manifatture Digitali Cinema Prato
e Teatro Laboratorio della Toscana/Associazione Teatrale Pistoiese