La scomparsa di Maria Grazia Gregori (nata Astolfi) non è giunta, purtroppo, del tutto imprevista. Tuttavia, come scrive Renato Palazzi, non si è mai preparati all’addio di una persona che tanto parte ha occupato nella nostra vita. E quindi noi siamo qui, Mgg, orfani di te ma non rassegnati alla tua perdita (e.f.)
Cara MGG, non posso nasconderti che scrivo questo pezzo molto di malavoglia. Lo scrivo perché ti è dovuto, visto che questo sito è stato per tanto tempo la tua casa, e non puoi lasciare questa casa senza esservi scambiate un ultimo saluto. Ma non riesco a rassegnarmi all’idea di dovermi rivolgere a te al passato. Posso sforzarmi di capire che te ne sei andata, ma continuo a considerare inconcepibile questa tua definitiva assenza. Sapevamo che la malattia stava prendendo il sopravvento, ci eravamo ormai rassegnati al fatto di doverti perdere, ma questo non rende la cosa più accettabile. Ora che davvero è successo non posso non chiedermi che ne sarà di me senza le nostre telefonate.
Per circa quarant’anni – non so neppure quanti esattamente – ci siamo telefonati quasi quotidianamente, a volte anche più volte al giorno, così che la nostra amicizia mi sembra essersi svolta soprattutto in quel legame telefonico. Poi, certo, ci incontravamo a teatro, viaggiavamo insieme, tu Italo, Rossella ed io per raggiungere festival o tornare nella notte dopo essere andati a vedere spettacoli in altre città, cenavamo insieme, prestissimo per via della tua solita ansia di arrivare in ritardo. Ma le cose da dirci, quelle sembravano riservate alle telefonate, soprattutto mattutine, che hanno accompagnato il nostro viaggio dentro il teatro e dentro la vita.
All’inizio ci chiamavamo per scambiarci commenti e impressioni sullo spettacolo visto la sera prima, poi, nel diversificarsi delle nostre scelte, per informarci a vicenda su chi avesse avuto ragione o torto nell’andare da una parte o dall’altra, poi per fare pettegolezzi, poi (tu) per fornire le ultime notizie su malattie e dipartite, poi (ancora tu) per monitorarci ad ogni istante, per essere costantemente informata su dove fossimo o dove stessimo andando. Alla fine, per una specie di mutuo e riconosciuto gioco delle parti, anzi giuoco delle parti, ti eri arbitrariamente attribuita il ruolo della vecchia zia saggia depositaria dei comportamenti virtuosi mentre a me toccava quello del ragazzaccio capriccioso che amava le esperienze più insolite e spiazzanti.
Da un certo punto in poi, seguendo ciascuno i propri gusti e le proprie abitudini, ci siamo trovati a comunicare da pianeti diversi. Tu che partivi alle sette del mattino, io che non ho mai prenotato un treno prima di mezzogiorno. Tu che in macchina ti avvolgevi in sciarpe e sciarpette, io che tenevo l’aria condizionata al massimo. Tu che mangiavi molto a pranzo e quasi nulla alla sera, io viceversa. Tu che restavi fedele ai saldi appigli del Novecento, il teatro di regia, Chéreau, Peter Stein, i grandi testi che amavi, O’ Neill, Tennesse Williams, io, avido del nuovo, che scoprivo ogni giorno con entusiasmo qualche gruppo o qualche artista post-drammatico, post-rappresentativo o semplicemente post, El Conde de Torrefiel, Sergio Blanco, Tiago Rodriguez…Tu mi consideravi un reietto da riportare sulla giusta via, io mi arrabbiavo per il tuo rifiuto di guardare al presente. Siamo stati per anni in disaccordo praticamente su tutto. Però non abbiamo mai interrotto il nostro dialogo.
E allora, ecco, se devo fare un bilancio di questo triste momento, mi sembra che quel parlarsi a distanza, a dispetto delle differenze di orientamenti e di opinioni, sia ciò che ha dato un senso a quella che chiamerei comunque la nostra fratellanza teatrale. Al di là degli affetti personali, al di là di tutto quello – tantissimo – che abbiamo condiviso lungo il cammino, credo che questo ininterrotto spazio telefonico che ci ha tenuto uniti rappresentasse una possibilità e uno spiraglio che andava oltre noi stessi. Roberto (De Monticelli) ci aveva lasciato in eredità la sua celebre metafora sulla solitudine del critico, con tutto ciò che essa poteva implicare. Noi, a nostro modo, abbiamo sfidato questa solitudine, abbiamo incarnato la fiducia che il nostro lavoro possa non avvenire in un completo isolamento, che serva a tessere dei fili, a individuare percorsi comuni.
Questa capacità di conservare un dialogo, di stabilire un contatto fra mondi lontani è ciò che manca furiosamente al mondo di oggi, ormai dedito soltanto alla rissa, allo scontro fra i punti di vista. Quando qualcosa non ti piaceva, concludevi l’articolo col tuo proverbiale: «da vedere e da discutere». Era una presa di posizione importante, indicava che il giudizio, positivo o negativo, non è mai una materia inerte, che prima di schierarsi da una parte o dall’altra occorre almeno capire di cosa si sta parlando. Anche per questo credo e spero di poter continuare a confrontarmi con te ancora a lungo. Il tuo telefono smetterà di suonare, ma assistendo a proposte che presumo sempre più estranee al tuo credo estetico penserò ogni volta: «Chissà come si sarebbe indignata Maria Grazia». Il che non mi impedirà di scriverne benissimo.
Renato Palazzi