Edizione dei Puritani al “Modena Belcanto Festival” forse non sempre centrata stilisticamente ma con l’asso vincente di Ruzil Gatin, tenore di luminosa caratura belliniana. Davide Annachini
I teatri di tradizione rappresentano storicamente un esempio di iniziativa e creatività, oltre che un trampolino di lancio per voci emergenti, impossibilitate altrimenti a mettersi in luce nelle fondazioni più prestigiose. Di conseguenza non si può pretendere da loro l’esecuzione di riferimento o la proposta esclusiva, quanto piuttosto la volontà e l’entusiasmo di fare musica, di coinvolgere il pubblico, di tenere viva la tradizione del melodramma. In una regione poi come l’Emilia e in un teatro come il Comunale Pavarotti-Freni di Modena tutto questo costituisce addirittura un impegno morale radicato nel DNA della gente e di un pubblico che conserva ancora la passione e la conoscenza del repertorio, non più così scontate nei teatri maggiori, dove l’identità di una platea competente ed appassionata sembra essersi ormai persa.
Forte di una tradizione vocale che fa capo ai due indimenticabili beniamini locali – il mitico “Lucianone” e l’incantevole Mirella Freni – è stato varato quest’anno il “Modena Belcanto Festival”, sostenuto da ben quattro istituzioni cittadine e motivato – non senza una finalità turistica – a proporre un ricco ventaglio di offerte musicali, dalla lirica alla musica antica, per arrivare sino all’elettronica, al pop alle media arts.
Quanto all’opera, si è partiti subito alla grande con un titolo di notevole responsabilità esecutiva come I puritani di Vincenzo Bellini, da sempre banco di prova di cantanti di prim’ordine e addirittura, nel caso del tenore, fuori dal comune. Emblema del repertorio belcantistico della prima metà dell’Ottocento, i Puritani pretendono soprattutto una rispondenza allo stile specifico di questo genere di melodramma, che richiede purezza vocale, virtuosismo impeccabile, duttilità coloristica nel gioco delle sfumature, adesione al linguaggio romantico, fatto di abbandoni estatici, di espressività intimista, di apertura al lirismo sentimentale. Senza questi presupposti non si può parlare di Belcanto, come ci hanno insegnato i grandi interpreti dalla Callas in poi e tutta una filologia che negli ultimi cinquant’anni ha recuperato lo stile più attendibile per eseguire questo repertorio.
A Modena forse la cifra belcantistica è rimasta più nelle intenzioni che nei risultati, al di là del successo che comunque l’opera belliniana ha riscosso, forte di pagine bellissime e di alcuni appuntamenti vocali decisivi nel garantire la storica sopravvivenza in cartellone di questo titolo. Sicuramente la lettura proposta dal direttore Alessandro d’Agostini aveva del Belcanto una visione tutta sua: le melodie belliniane “lunghe, lunghe, lunghe”, come le definiva Verdi, sembravano risolte più con urgenza che con abbandono, certa dolenza delle pagine corali acquistava un inspiegabile ritmo marziale, la cantabilità belliniana invece di espandersi sembrava irrigidita in una scansione ferrea, le tinte sfumate e intimiste lasciavano il posto a sonorità corpose e non sempre raffinate, sostenute dalla Filarmonica del Teatro Comunale e dal Coro Lirico di Modena preparato da Giovanni Farina.
Lo spettacolo recuperava un allestimento di proprietà del teatro, a firma di Francesco Esposito per regia e costumi, di Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti per le scene e di Andrea Ricci per le luci. Messinscena fortemente plumbea, convenzionale nelle soluzioni e con alcune sottolineature francamente inopportune, come le atterrite damigelle che presenziavano il duetto tra Elvira e Arturo, il più intimo e privato che si possa ricordare nel repertorio romantico, insieme a quello di Lucia di Lammermoor. I Puritani non amano il realismo e tanto meno il bozzettismo, essendo opera quasi metafisica, dalle sublimi sospensioni incantate e dalle rarefatte atmosfere oniriche.
Buona parte del cast ha garantito una qualità se non proprio belcantistica quanto meno funzionale all’esecuzione: al di là delle parti minori – Nozomi Kato (Enrichetta), Andrea Pellegrini (Lord Gualtiero), Matteo Macchioni (Sir Bruno) – si sono fatti valere Luca Tittoto, un Giorgio felicemente risolto nell’espressività intimista e nella corretta linea vocale particolarmente apprezzate dal pubblico, e Alessandro Luongo, un Riccardo anche se non sempre levigato nell’emissione e nelle fioriture (quanto un po’ in affanno su certe puntature acute) comunque attendibile ed efficace. A loro è spettato il bis – forse più accolto dal direttore che dagli stessi interessati, apparentemente non entusiasti – di “Suoni la tromba”, pagina popolare anche se non tra le più eccelse dell’opera. Ruth Iniesta si è trovata ad affrontare una parte forse più grande di lei, come quella di Elvira, banco di prova delle grandi primedonne virtuose. Vuoi per il timbro poco luminoso e tendenzialmente monocorde (ma che risultava subito più dolce ed espressivo nel momento in cui la cantante usava le mezzetinte, come nella grande scena di pazzia), vuoi per il virtuosismo limitatamente rifinito e acrobatico, vuoi per la tendenza a spingere sui sovracuti, più forzati che brillanti, la sua è stata una restituzione in tono minore di uno dei più grandi ruoli belcantistici, risolto onestamente ma senza particolari voli vocali ed interpretativi.
Un motivo per andare a sentire questi Puritani comunque c’era e stava nel tenore Ruzil Gatin, che, reduce dall’ammirevole prestazione come Percy nella recente Anna Bolena modenese, affrontava un altro ruolo scritto per il leggendario Rubini, forse il più temerario come quello d’Arturo. E finalmente si è potuto ascoltare un canto puro, limpidissimo, di angelicata dolcezza, dalla dizione impeccabile, dalla facilità nell’ascesa al sovracuto (raggiante il suo do diesis in “A te, o cara”), dallo stile estatico, nella più autentica cifra belliniana. E’ stato come un raggio lucente in un’edizione opaca, che ha subito restituito al Belcanto la sua legittima identità.