Un’edizione inedita e sconvolgente di Ermione si impone al Rossini Opera Festival nella Pesaro capitale della cultura, grazie alla direzione soggiogante di Michele Mariotti e a una sorprendente protagonista come Anastasia Bartoli. Davide Annachini
In concomitanza con Pesaro capitale italiana della cultura 2024, il Rossini Opera Festival ha presentato un’edizione più ricca del solito e più giocata sulle diverse sedi teatrali, con la riapertura ad esempio – dopo decenni di polemiche cittadine – dello storico Auditorium Scavolini, a suo tempo palazzetto dello sport adattato a palcoscenico di indimenticabili e fastose messinscene. A rotazione sono stati presentati due grandi melodrammi seri – Bianca e Falliero ed Ermione – e due buffi come riprese di precedenti edizioni – L’equivoco stravagante e Il barbiere di Siviglia -, oltre a un omaggio in forma di concerto del Viaggio a Reims (per il quarantennale della sua leggendaria riesumazione, firmata da Abbado-Ronconi), a recital, cantate, messe e via dicendo, tutte nel nome del Cigno pesarese.
Riconfermato il successo delle due riprese, vuoi per l’irresistibile comicità dell’Equivoco, zeppo di doppi sensi maliziosi e di ambiguità che arrivano a mettere un punto interrogativo addirittura sul sesso della stessa protagonista (cast impagabile e regia gustosissima di Moshe Leiser e Patrice Caurier), vuoi – nel caso del Barbiere – per la superba rilettura di un’opera così abusata che ne ha dato Pier Luigi Pizzi, esemplare per il nitore scenico e l’asciuttezza interpretativa della sua messinscena, le maggiori attenzioni erano comunque rivolte ai due melodrammi seri.
Entrambe dello stesso anno – il 1819 – ma quanto mai distanti tra loro per stile e forza, le due opere hanno avuto un impatto prevedibilmente diverso: Bianca e Falliero, nella sua classica compostezza pensata per le tradizionali aspettative scaligere, a Pesaro ha vissuto soprattutto sull’elegante e sensibile direzione di Roberto Abbado ma ha prestato il fianco alle grandi attese virtuosistiche e sceniche per via di un cast sbilanciato e della regia alquanto inconcludente e fumosa di Jean-Louis Grinda, mentre d’altro lato Ermione ha rappresentato l’autentico successo del festival, se non addirittura la rivelazione.
In realtà era stato proprio il ROF – nel 1987 – a riportare alla luce questa partitura con tutti gli onori (i nomi erano nientemeno che Caballé, Horne, Merritt, Blake), riproponendola ancora in due edizioni con cantanti sempre prestigiosi e dal virtuosismo superbo, ma in questa occasione il festival è sembrato guardare oltre e puntare a ben più del semplice belcanto. Opera assolutamente atipica, realizzata da Rossini in un teatro di pure sperimentazioni come era all’epoca il San Carlo di Napoli, Ermione presenta una struttura volutamente sbilenca, fatta di grandi scene vocali e corali che tendono a disattendere le normali regole del melodramma primottocentesco a favore di una drammaticità incalzante, dal respiro epico e dalle tensioni spasmodiche, che se disorientò il pubblico partenopeo e decretò il suo morire sul nascere, ora risulta assolutamente catturante e profetica addirittura per il secolo a venire. Questa visionaria genialità va colta però non solo attraverso la risoluzione vocale, per altro terribilmente ardua, ma soprattutto tramite un’interpretazione che segni nel profondo e sottolinei l’anticipazione di una teatralità all’epoca inimmaginabile.
Questo l’ha capito benissimo Michele Mariotti, che nella sua lettura travolgente, ispiratissima e illuminante ha dato non solo conferma di essere un grande direttore – se mai ce ne fosse stato bisogno – ma soprattutto un interprete in luminosa maturazione, tanto da regalare alla sua città il Rossini più memorabile che sia uscito sinora dalla sua bacchetta. Inanellando momenti elettrizzanti, come i finali d’atto e gli accompagnamenti alle grandi arie, Mariotti ha delineato un’atmosfera incombente, cupa, demoniaca, trasportando progressivamente la tragedia a dimensioni insostenibili, apocalittiche, e facendola precipitare poi d’un punto nella catastrofe finale, emblema di un Rossini e di un melodramma senza precedenti e senza futuro.
A tener testa a una direzione così totalizzante servivano un’orchestra di livello (e questa c’era, l’eccellente Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, affiancata dal Coro del Teatro Ventidio Basso, preparato da Giovanni Farina) e ovviamente un cast duttile nel canto e nell’espressione. In questo caso la carta vincente è stata giocata da una protagonista inedita e sorprendente come Anastasia Bartoli, soprano di caratura drammatica, dalla voce dirompente per smalto, densità, colore, volume, e interprete insinuante, combattuta, demoniaca, sensuale, tragica. Un’Ermione grandiosa e sconvolgente non solo per il fatto di riuscire a calarsi in un personaggio totalmente dark, ancor più satanico che epico, ma soprattutto per la capacità di svincolare il belcanto dalla sua natura puramente strumentale nel proiettarlo a una dimensione drammatica di inusitata forza espressiva.
Il clamoroso successo personale del soprano è stato condiviso insieme a due partner maschili che con lei rispondevano idealmente al celebre terzetto Colbran-Nozzari-David, dedicatario delle principali opere serie scritte da Rossini per Napoli: Enea Scala ha rinverdito l’idea del baritenore lanciato ai vertici di una vocalità impossibile – tanto grave quanto acuta, oltre che acrobatica nel virtuosismo – tratteggiando un Pirro crudele e cinico, dalla presenza sinistra e depravata di incisiva efficacia scenica, mentre il grande Juan Diego Florez, in una parte acutissima e fioritissima, è stato un Oreste dal canto levigato e dallo schietto slancio vocale, in cui si è espressa anche la natura sconvolta dell’innamorato plagiato al punto da arrivare a macchiarsi di sangue. Bravi tutti gli altri, in particolare l’Andromaca patetica di Victoria Yarovaya, il Pilade tenorile di Antonio Mandrillo e il Fenicio ambiguo nelle vesti quanto ottimamente risolto nel canto di Michael Mofidian, insieme a Martiniana Antonie (Cleone), Paola Leguizamon (Cefisa) e Tianxuefei Sun (Attalo).
Lo spettacolo di Johannes Erath (scene di Heike Scheele, costumi di Jorge Jara, video di Bibi Abel, luci di Fabio Antoci) si sposava alla linea interpretativa dell’esecuzione, trasportando l’ambientazione in un clima claustrofobico, cupo, malvagio, di sapore quasi espressionista, dove in una corte sfatta e decadente, regno del delitto e del potere amorale, si consumavano le trame più diaboliche nel nome di un amore disperato, da possedere a tutti i costi anche quando non corrisposto, che i protagonisti rivolgevano a catena verso la persona sbagliata, sino ad arrivare alla sua distruzione e di conseguenza alla propria.
Spettacolo molto intrigante e coinvolgente, salutato insieme a tutti gli interpreti da un successo trionfale alla prima e alle repliche.
Visto al Rossini Opera Festival il 9 agosto