Edizione riuscita a metà per la Norma di Bellini, di ritorno alla Scala dopo quasi mezzo secolo, con spiacevoli cancellazioni nel cast alle repliche. Davide Annachini
Norma è uno di quei titoli che al Teatro alla Scala sono rimasti in lista d’attesa per lunghi anni, come a suo tempo Traviata o Medea, e non tanto per il solito fantasma della Callas (o della Caballé, ultima interprete a Milano nel lontano 1977) che viene evocato ogniqualvolta si riproponga uno dei suoi cavalli di battaglia, quanto perché di opera di grande responsabilità si tratta. Nel tornare al teatro che nel 1831 ne aveva siglato il contrastato battesimo, il capolavoro di Vincenzo Bellini ha avuto la garanzia di un’edizione che, seppure contestatissima sotto il profilo registico, presentava musicalmente molte frecce al suo arco e – quantomeno dall’ascolto della trasmissione radiofonica della prima – poteva vantare un cast all’altezza e una scelta stilistica pertinente e omogenea. Per un’opera del Belcanto questi sono i requisiti fondamentali, in assenza dei quali – anche parziale – l’esecuzione zoppica o non si giustifica.
Nella recita in questione la sfortuna ha voluto che addirittura i due protagonisti siano venuti a mancare – senza per altro che se ne leggesse notizia sui manifesti, anche se il forfait di Marina Rebeka fosse trapelato sui social già dal giorno avanti -, cosa che ha provocato accesi dissensi in sala all’annuncio solo prima dell’esecuzione. E questo sicuramente non ha creato il clima ideale per accogliere la sostituta, Marta Torbidoni, per altro al suo debutto scaligero in un ruolo di così grande responsabilità, che ha dovuto subire lo scotto tra gli applausi generali di qualche buu, probabilmente più di malcontento che di disapprovazione. Una volta se ne sarebbe fatta una tragedia – e alla stessa Callas non si perdonò l’improvviso forfait nel ’58 all’Opera di Roma, proprio in Norma, creandone addirittura uno scandalo di portata internazionale, che compromise i suoi rapporti con la Scala e con il Met – ma oggi è tale la frequenza con cui i divi cancellano da forzare il pubblico a rassegnarsi al cambio dell’ultima ora, come nel caso della stessa Rebeka, che più di una volta ha lasciato a bocca asciutta chi – compreso il sottoscritto – fosse andato appositamente a Milano per sentirla.
La Torbidoni ha comunque sostenuto la parte di Norma con grande professionalità, con non pochi meriti ma anche con qualche perplessità nei confronti di un ruolo che pretenderebbe qualcosa di più, soprattutto in un contesto come quello scaligero. La sua vocalità, più vicina a quella di un soprano lirico pieno che a quella di un drammatico, sembra risentire del peso di un repertorio decisamente pesante (in cui figurano anche le Abigaille e le Lady Macbeth), vuoi per un registro grave non particolarmente ampio, vuoi per certe sgranature d’emissione che tolgono compattezza e omogeneità a tutta la gamma, vuoi per alcuni acuti non sempre centratissimi e talvolta forzati, come il temerario re sovracuto alla fine del primo atto. Sul piano belcantistico le agilità, per quanto risolte, non mostrano grandi voli virtuosistici e così pure il gioco coloristico non appare particolarmente sfumato. Detto questo, però, la Torbidoni ha comunque portato a buon fine non solo una prova da far tremare i polsi ma anche un’interpretazione a suo modo personale, intensa e alla fine vincente, che ha convinto buona parte del pubblico, assicurandole un successo ampiamente meritato.
Diverso il discorso per Vasilisa Berzhanskaya, voce tra le più interessanti del momento per il fatto di abbracciare l’intero registro del mezzo e del soprano, con emissioni di grande penetrazione, ricche di sfumature e di effetti timbrici particolarissimi, addirittura raggianti in zona acuta. La sua Adalgisa ha vissuto di conseguenza su un’interpretazione principalmente di stampo belcantistico, nel giocare sulla varietà coloristica del suono ma anche sull’incisività dell’accento e sullo slancio espressivo, vibrante e intimista, femminile e virginale. Per lei – che è già stata anche un’eccellente Norma – il successo era prevedibile e il primato dell’esecuzione più che scontato, considerato anche il fatto dell’assenza della Rebeka, con la quale il risalto dei famosi duetti aveva trovato perfetto equilibrio e intesa esecutiva. Anche Michele Pertusi rispondeva a un’esecuzione di cifra belcantistica, per la morbidezza del suono, l’eleganza del porgere, l’autorevolezza dell’accento, che hanno assicurato al suo Oroveso un rilievo non solo sacerdotale ma anche profondamente umano, tanto più sostenuto da una forma vocale ancora superba per i molti anni di carriera alle spalle.
In sostituzione di Freddie De Tommaso, tenore gettonatissimo a livello internazionale ma di sicuro non come belcantista, è subentrato Antonio Poli – originariamente previsto per una replica in coppia con la Torbidoni ma poi impiegato in più di una recita – che come Pollione ha quantomeno sfoggiato il suo bel colore lirico nei centri, senza trovarsi troppo impegnato nel registro acuto (più faticoso per lui a causa di un’emissione un po’ “aperta”) e con l’opportunità invece di mettere in luce la nitidezza della dizione e qualche buona intenzione espressiva, all’interno di una prova tutto sommato assai più convincente rispetto a quelle offerte di recente in campo verdiano. Il cast comprendeva poi l’ottimo Flavio di Paolo Antognetti e la valida Clotilde di Laura Lolita Peresivana.
A Fabio Luisi – direttore di lunga militanza tra l’altro nel reperto belcantistico – spettava la proprietà di una lettura ben consapevole dello stile belliniano, quanto a levigatezza esecutiva, eleganza nella definizione delle variazioni, sensibilità nella restituzione di un’espressività che andasse di pari passo con le ragioni del canto. Lo ha fatto nel rispetto delle voci e delle loro possibilità, adeguando la misura al cambio della protagonista (ad esempio nelle fioriture di “Ah! bello a me ritorna”, più ridimensionate rispetto a quelle eseguite dalla Rebeka) ed esaltando soprattutto l’intimismo di diverse pagine. Talvolta ha ecceduto in certi fortissimi o nello stacco rapidissimo di alcuni incisi brillanti (“Sì, fino all’ore estreme”), ma, sia nella tenuta dell’orchestra e del coro scaligeri (quest’ultimo preparato da Alberto Malazzi) sia del palcoscenico, la sua è stata una lettura coerente, incisiva e di sicura cifra belliniana.
Di ben altro stile era invece lo spettacolo a firma di Olivier Py (scene e costumi di Pierre-André Weitz, luci di Bertrand Killy, coreografie di Ivo Bauchiero), ambientato in un macchinoso “teatro nel teatro” ispirato alle stesse architetture scaligere del Piermarini, che oltre a replicare un déjà vu trito e ritrito affastellava citazioni su citazioni fini a se stesse, con rimandi a Medea, a Eva contro Eva e forse anche al varietà televisivo, visto che gli orripilanti quanto imprecisi balletti improvvisati da un gruppetto di mimi seminudi già a partire dalla sinfonia erano molto in odore di Carrà. Il tutto in un horror vacui pacchiano quanto insolente nei confronti della musica di Bellini, sublime e purissima come mai in un’opera come questa. Quanto meno i fischi demolitori, che hanno affondato la regia alla prima senza possibilità di replica, si sono risparmiati a questa recita, lasciando spazio agli applausi complessivamente meritati per gli esecutori. Ma per Norma la grande occasione è da rimandare a data da destinarsi.
Visto al Teatro alla Scala di Milano, 11 luglio.
(foto Brescia e Amisano – Teatro alla Scala)