Una rara ripresa dell’Ernani di Verdi riaccende furori romantici nei confronti della regia ma anche entusiasmi per l’esecuzione musicale, dominata da un magnifico Enkhbat. Davide Annachini
Ernani rappresenta uno dei capisaldi del Verdi giovanile, che alla sua quinta opera si confermava il compositore non solo più interessante del momento ma soprattutto il più vicino al sentire popolare, nel 1844 in pieno fermento risorgimentale. La scelta stessa del soggetto esprimeva l’adesione a un risveglio delle coscienze nazionalistiche, come già Verdi aveva rivelato in Nabucco e nei Lombardi alla prima Crociata: quattordici anni prima l’Hernani di Victor Hugo non solo aveva acceso la celebre Bataille tra classicisti e romantici alla Comédie-Française ma era divenuto l’emblematica miccia esplosiva per le imminenti “tre gloriose giornate di Parigi”, che avrebbero visto scendere per le strade popolo e borghesia, cittadini e intellettuali, a combattere contro l’assolutismo di Carlo X. E come già Hugo aveva subito la censura del re – a suo tempo omaggiato da Rossini nel Viaggio a Reims – così Verdi in Italia rispecchiava l’immagine dell’artista provocatore costantemente nel mirino dei censori austriaci.
Ma il Verdi degli “anni di galera” proponeva anche un tipo di melodramma perfettamente in sintonia con gli intenti politici: il tanto deprecato susseguirsi di recitativi-arie-cabalette rispecchiava sì un tipo di drammaturgia un po’ spartana ma anche ideale nel trasferire tutta l’urgenza, la passione, il fuoco del momento storico alla musica e al teatro d’opera. Sotto questo aspetto Ernani si inquadra come uno degli esempi più rappresentativi di un melodramma di svolta, in parte slegato dalle estasi contemplative del Belcanto e tutto proiettato a un impatto travolgente e coinvolgente sul pubblico. Per questo è un’opera di grande presa e da ascoltare quasi senza riprendere fiato, tanto l’azione risulta bruciante, ma che d’altro lato lascia anche spazio ai cantanti per trovare i loro momenti per brillare, a patto che di un quartetto di cantanti con i fiocchi si tratti.
La Fondazione Arena di Verona ha riportato l’opera verdiana sulle scene del Teatro Filarmonico dopo molti anni dalle ultime edizioni, grazie a un’équipe musicale di tutto rispetto che ha avuto nella direzione attenta, equilibrata nelle sonorità e incisiva negli accenti di Paolo Arrivabeni un riferimento sicuro e autorevole, ottimamente corrisposto dall’orchestra e dal coro areniani, quest’ultimo preparato al meglio da Roberto Gabbiani. Il cast vedeva la sua punta di diamante in Amartuvshin Enkhbat, che in un ruolo di estremo impegno come quello di Don Carlo ha confermato la qualità di un canto perduto, per la timbratura perfetta su tutta l’estensione, la facilità nel sostenere con morbidezza anche le tessiture acute, l’eleganza del fraseggio, qualità rarissime che ne fanno al momento l’interprete ideale a livello internazionale per i grandi ruoli di baritono nobile. Il suo successo, davvero trionfale, non ha messo in ombra il resto della compagnia: Antonio Poli, qui molto più a fuoco rispetto ad altre sue recenti prove verdiane, è stato un Ernani convincente e a tratti suggestivo nel versante intimista, per la luminosità del timbro, per un’acquisita timbratura degli acuti, per la nitidezza della parola; Olga Maslova, per quanto votata a ruoli decisamente drammatici per la sua vocalità di soprano lirico, ha messo in luce come Elvira la prontezza del registro acuto – impegnato senza risparmio per tutta l’opera – rispetto a quello grave, piuttosto contenuto, e alle agilità, ancora da rifinire soprattutto nel controllo dei fiati; Vitalij Kowaljow ha delineato un Silva giustamente austero e vocalmente all’altezza di un ruolo anch’esso di grande responsabilità. Validi, a fianco del quartetto dei protagonisti, la Giovanna di Elisabetta Zizzo, il Don Riccardo di Saverio Fiore, lo Jago di Gabriele Sagona.
La calorosa accoglienza riservata alla componente musicale non ha trovato corrispondenza nei confronti della messinscena – a totale firma di Stefano Poda, già protagonista delle ultime inaugurazioni verdiane in Arena con Aida e Nabucco –, pesantemente contestata alla prima. In realtà lo stile simbolico del regista trentino ha trasportato come sempre l’opera in una dimensione astratta, dal fascino ermetico e dalle scelte estetiche prioritarie quanto indubbiamente divisive, che in una grande scatola scenica trasparente ricreava una storia tutta sua, forse non sempre convincente ma indubbiamente realizzata ad arte, con scene dal sapore tecnologico e costumi bellissimi. Uno spettacolo confezionato con alta professionalità, da sposare o rifiutare probabilmente sì, ma anche senza tanto clamore da bataille.
Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 14 dicembre.
(Foto Ennevi)
















