Con una regia aguzza e raggelata, Andrea Adriatico esaspera il linguaggio volutamente eccessivo dell’autore franco-argentino, facendone emergere la vena derisoria e disperata – Renato Palazzi
Di tutte le commedie di Copi, L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi è forse quella che più è dotata di una struttura in qualche modo “teatrale”, anche per il fatto che utilizza dei cliché di un certo teatro del passato, essendo costruita come la parodia di un drammone russo ottocentesco. È inoltre la pièce dell’autore franco-argentino che meglio si presta a una vasta gamma di umori e sfumature nell’approccio alla vicenda: Tonino Conte, ad esempio, affrontandola anni fa al Teatro della Tosse di Genova vi aveva colto una nota gelidamente malinconica, Annalisa Bianco e Virginio Liberti ne avevano fatto una sorta di stralunato musical.
Andrea Adriatico, nell’aguzza messinscena realizzata per i Teatri di Vita, ne esaspera invece – e insieme ne raggela – le componenti più lividamente grottesche, a partire dalla scelta delle interpreti principali: la giovane Irina, emblema di seduzione, oggetto del desiderio di maschi e femmine, è un’attrice di mezza età, la brava Anna Amadori, che palesemente non ha il physique du rôle di una perversa Lolita. La signora Simpson, la sua presunta madre, affidata a Olga Durano, è una specie di irsuta erinni dal vocione baritonale. Eva Robin’s, l’affascinante signora Garbo, affascinante lo è davvero, ma il membro virile che al suo personaggio sarebbe stato trapiantato in sala operatoria lei viceversa ce l’ha sul serio, per natura, e non fa molto per nasconderne l’evidenza.
Va detto, per giunta, che la scombinata trama è ambientata, stando alle indicazioni dell’autore, nel freddo paesaggio siberiano, fra corse in slitta e attacchi di lupi famelici. E questi personaggi, in effetti, non fanno che parlare di steppe e di cosacchi e di temperature a quaranta gradi sotto zero: ma lo fanno presentandosi incongruamente in costume da bagno, con cappelli di paglia e occhiali da sole e tutto quanto occorre per una giornata sulla spiaggia. E poco importa che questa spiaggia – suggerita da un telo bianco quadrato che madre e figlia stendono scrupolosamente al momento dell’inizio – sia circondata da sacchi delle immondizie, mucchi di cartacce, bottigliette di plastica vuote.
L’intreccio, scandito da quei folgoranti scambi di battute perfidamente surreali che formano anche l’autentica ossatura delle vignette di Copi, e a cui le tre impeccabili interpreti conferiscono una specie di allucinata inesorabilità, mescola scenari esotici e situazioni romanzesche – la Transiberiana, il sogno di un’avventurosa fuga in Cina – a ogni sorta di sconcezze e di sfrenate oscenità, topi infilati negli orifizi, aborti, ossessioni fecali. Tutte e tre le protagoniste hanno sesso incerto, tutte si dichiarano variamente passate dai chirurghi di Casablanca. E il passatempo preferito di Irina è mettersi nuda nei cessi della stazione per farsi sbattere dai cosacchi.
Adriatico, nel trattare questa materia incontenibilmente debordante, eccessiva, “scandalosa”, non usa mezze misure: non la attenua, non la smussa ma la rende, al contrario, ancora più tagliente. Anziché alleggerirla, ne accentua i tratti sgradevoli trasformando quelle ambigue figurette in maschere sguaiate, strappandole brutalmente al loro contesto, esasperandone certe componenti trucemente patologiche. Il finale si volge in tragedia, con tutti i personaggi che crollano al suolo quando muore Irina, e le tre donne avvolte nel telo che copriva il pavimento come rifiuti da buttare: ma è una tragedia svuotata di pathos, ottusa e volutamente inappagante, sintesi di quella vena derisoria ma sostanzialmente disperata che è propria dell’autore.
L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi
di Copi
uno spettacolo di Andrea Adriatico
scenotecnica e luci: Carlo Quartaro
costumi: Valentina Sanna
scene: Andrea Cinelli
con: Anna Amadori, Olga Durano, Eva Robin’s
e Maurizio Patella, Saverio Peschechera, Alberto Sarti
Visto al Teatro i di Milano