Le tre autrici della rivista trimestrale di studi sul teatro hanno raccolto l’invito di Renato Palazzi a dibattere sul futuro del teatro italiano in un delicato momento di transizione
Tra promesse e precarietà, la sfida dei trentenni
Al festival della regia – organizzato a Milano tra il 24 e il 26 marzo – Licia Lanera di Fibre Parallele (nella foto con Riccardo Spagnulo in Lo splendore dei supplizi) ha preso parola in modo energico e deciso a nome di un’intera generazione: quella dei trenta-quarantenni che, da quasi dieci anni, provano a restare a galla in un sistema teatrale affaticato e quasi impermeabile a stimoli e aperture. Una generazione abituata a fare i conti con risorse ridotte all’osso, con una crisi che, nata come congiunturale, è poi diventata strutturale, con una quotidianità di costante incertezza. Diremmo anche di precarietà, se il termine non fosse davvero abusato e non avesse preso a significare tutto un mondo, un modo di essere e una realtà con cui convivere.
Eppure, “Siamo diventati così forti che nulla ci può fermare. Rassegnatevi!”, esclamava Lanera, concludendo un lungo e partecipato elenco di “compagni di sventura-avventura”, coetanei e non, contigui o meno per ispirazione, stile e codici artistici, ma sicuramente simili a Fibre Parallele per le sfide affrontate nel tentativo di affermarsi e ricevere legittimazione.
Mentre noi di Stratagemmi ascoltavamo l’intervento di Licia, non abbiamo potuto fare a meno di pensare che quelle parole riguardavano da vicino anche chi il teatro non lo fa ma lo guarda e analizza, e prova a capirlo e comunicarlo; noi che osserviamo quello stesso sistema teatro che drammaturghi, registi e attori vivono ogni giorno.
Abbiamo avuto la stessa impressione leggendo la riflessione di Renato Palazzi che, a buon diritto, sollecita un’intera generazione a confrontarsi con il mondo ‘adulto’ da pari a pari, al di fuori di etichette protettive e rassicuranti come quelle di ‘giovani’, ‘emergenti’, ‘nuovo teatro’: ammesse fino a quando dal magma creativo non c’è qualcuno che ti chiede di sistematizzare, organizzare, specializzarsi, trasformarsi in punto di riferimento e non scheggia imprevedibile.
La questione ci riguarda perché siamo anche noi giovani (o forse non più) critici trentenni in cerca di quel ‘salto di qualità’ al quale Palazzi chiama. E perché anche a noi tocca una sfida non da poco: la critica, da sempre esercizio di analisi e approfondimento, sta cercando di reinventarsi in un mondo che sempre più rifugge dalla profondità, e lo sta facendo in modo vulcanico, cercando di stare al passo con un tempo che richiede interventi multiformi e sempre più istantanei.
Qualche volta lo sta facendo bene – ci sembra – dimostrando carisma e idee.
E non dimentichiamo che si sta muovendo in un sistema lavoro che, a ben vedere, sistema proprio non è. Piuttosto, è una giungla senza protezioni e oasi sicure, dove talvolta anche l’approdo sembra confondersi e nel viaggio si smarrisce la direzione. Fuor di metafora, è evidente che affermarsi e costruire un percorso professionale in queste condizioni (vale per la critica come per il teatro che va in scena) non è impresa semplice. Non solo perché l’equazione “meno risorse più qualità” non funziona mai, ma anche perché è molto difficile garantire continuità senza sostegno.
Una prima riflessione in questo senso è quella che suggerisce, implicitamente, Renato Palazzi nella sua ricostruzione critica dell’esistente: “c’è chi è nettamente cresciuto e ha ormai acquisito un’attenzione nazionale”, scrive. Ovvero: si parte in tanti ma si arriva in pochi. Quei pochi sono quelli che hanno ottenuto il loro posto impegnandosi e combattendo ogni giorno, quelli che, nel caso del teatro così come in quello della critica, sono diventati esperti di contabilità e bandi senza perdere la creatività e anzi puntando sull’affermazione di un’identità, quelli che hanno saputo rinnovare il proprio stile dialogando con i ‘grandi’.
Ed è questa, forse, una lezione dalla quale imparare: anche il sistema più ottuso e stantio alla fine premia chi fa il proprio lavoro bene, senza rinunciare mai. È una sfida difficile, per noi non più promettenti giovani e non ancora affermati adulti, ma cui non vale la pena abdicare.
La seconda riflessione è quella che lega la domanda del ‘mondo adulto’ all’offerta concreta che può offrire quello dei giovani. Sentirsi e lavorare da precari è una condizione che non può non incidere su quanto e come si produce, per usare due termini propri dell’economia capitalista. Fino a quando alla nostra generazione non sarà permesso di smarcarsi da questa aggettivazione, fino a quando il sistema-lavoro non si stabilizzerà, garantendo le condizioni minime di produttività per tutti coloro che vogliono davvero lavorare e impegnarsi, i prodotti di questa generazione non saranno mai pienamente compiuti, non saranno mai completamente ‘adulti’, nel modo in cui il sistema (anche quello culturale), a ragione, richiede che diventino. Certamente non è facile capire da dove e da chi debba cominciare il moto buono che riassetti un sistema davvero troppo avviluppato su di sé. Così tanto avviluppato che il più naturale dei processi, diventare adulti (in senso personale e lavorativo), sta diventando un’impresa al limite dell’incredibile.
Francesca Gambarini
Maddalena Giovannelli
Francesca Serrazanetti
Stratagemmi.it
Leggi gli interventi precedenti di:
Renato Palazzi
Roberto Scappin (Quotidiana.com)
Babilonia Teatri
Tindaro Granata
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Simone Nebbia su TeatroeCritica