Che fine hanno fatto le She She Pop e Nico and the Navigator? Perché di tanti meravigliosi spettacoli visti durante i festival estivi poi si perde completamente traccia? Ha ancora senso per un critico di professione andare a vedere capolavori destinati a essere espunti dai cartelloni ufficiali e visti solo da una ristretta minoranza? – Renato Palazzi
Come ogni anno di questi tempi, anche nelle scorse settimane ho cercato di fare scrupolosamente il mio dovere: ho viaggiato, ho seguito diversi festival, sono stato seduto su panche scomodissime e in capannoni afosi, ho assistito a una quantità di spettacoli, forse con qualche minor soddisfazione che in passato, ma sempre con la consueta curiosità e passione. Devo però confessare che comincio a perdere un po’ la fede. I festival, si sa, sono una straordinaria risorsa del nostro teatro: offrono delle preziose vetrine a importanti produzioni, danno un sostegno alla ricerca, valorizzano le nuove realtà, svolgono una fondamentale opera di selezione delle forze attive sul territorio. Temo che rischino, però, di diventare delle specie di macchine celibi, dei recinti separati dove si vivono esperienze destinate a restare senza seguito.
Mi spiego meglio: sono anni che, frequentando questi spazi deputati, vedo cose che mi colpiscono e mi emozionano, e come tutti i miei colleghi sono orgoglioso di segnalarle. Sono anni che condivido col pubblico di questa o quella rassegna il piacere, la soddisfazione, la sorpresa di trovarsi di fronte a un grande artista che non conoscevamo, a uno spettacolo che ci apre nuove prospettive. Sono anni che, magari tra uno spostamento e l’altro, in fretta e furia, senza troppo tempo per pensare, cerco faticosamente di analizzare – a vantaggio di chi ha voglia di leggermi – dei fenomeni spiazzanti e inusitati. Ma credete che tutto questo cambi qualcosa, che possa incidere anche minimamente sugli equilibri delle normali stagioni teatrali?
Ritengo che un compito prioritario dei festival sia proprio quello di individuare e proporre degli eventi anomali, in grado di spostare la nostra sensibilità estetica e culturale, ma non posso pensare che tutto finisca lì, che spettacoli belli o bellissimi o anche solo singolari siano destinati a essere rappresentati soltanto al loro interno, per una o due repliche appena, e ad essere visti unicamente dalle poche centinaia di spettatori presenti in quelle sere. Spero sempre che altre realtà, altri organismi, altri tipi di strutture più o meno istituzionali, in seguito, siano interessati a proseguire sulla stessa strada, che altre platee, nei mesi a venire, abbiano modo – come noi – di apprezzare e di applaudire questi eventi. Kantor, quando ha presentato al festival di Nancy La classe morta, era un illustre sconosciuto, e dopo quel successo ha girato i teatri di tutto il mondo. Ma devo prendere atto che ormai da parecchio tempo non va più così.
Ci sono spettacoli dei quali si sa in partenza che, per ragioni di costi, non gireranno mai. Il Peter Pan di Bob Wilson (foto) – oltre centomila euro a recita – solo un festival milionario come Spoleto se lo può permettere. Neppure il più finanziato degli stabili pubblici riuscirebbe a programmarlo regolarmente. E il fatto che l’Opera da tre soldi, dopo il debutto spoletino, sia stata presa dal Romolo Valli di Reggio Emilia è l’eccezione che conferma la regola. Ma al capo opposto ci sono spettacoli, spesso geniali, che costano pochissimo, e che pure non sono presi in considerazione. Vi risulta che lo schizzatissimo Elettrocardiodramma di Leonardo Capuano, stratosferico esercizio di talento attorale visto lo scorso anno a Castiglioncello, sia stato accolto in qualche sala italiana?
Ma è soprattutto in una certa fascia media, o medio-alta, che si ha più viva l’impressione di un assurdo spreco di sforzi e di risorse. Quanti lavori ci sono stati sottoposti, nei festival di questi ultimi anni, che ci hanno colpito, interessato, hanno attirato la nostra attenzione, sui quali abbiamo giustamente speso lodi sperticate, profuso tesori d’entusiasmo, e dei quali si è persa immediatamente ogni traccia? Che nessun direttore artistico di grandi e prestigiosi teatri si è sognato di andare a vedere, e di cui neppure ha vagamente chiesto informazioni? E pensate che abbia senso, per il critico professionista, continuare a recensire delle messinscene di cui il lettore, come avviene per tanti film presentati nelle sezioni collaterali di Cannes o di Venezia, non avrà mai un riscontro?
Sarebbe divertente, se non fosse enormemente frustrante, stilare un elenco di spettacoli osannati e dimenticati nel giro di qualche giorno. Chi ha mai più visto il Théâtre de la Mezzanine coi visionari ciclisti-manichini che raccontavano la storia del mondo pedalando nel delirante velodromo di Shooting Star (Santarcangelo 2002), chi ha mai più visto i tedeschi Nico and the navigator con l’estroso Kain, Wenn & Aber (festival di Parma 2004), o il gruppo belga Tg Stan, che con Tout est calme presentò un sorprendente approccio farsesco al teatro di Thomas Bernhard (Santarcangelo 2004)?
Chi ricorda i danesi di Hotel Pro Forma col loro onirico, ultra-inventivo Sono solo apparentemente morto, inquietante incursione negli incubi e nelle nevrosi di Hans Christian Andersen (Biennale Teatro, Venezia, 2005), o Domini públic del catalano Roger Bernat, che in una piazza affollata, attraverso istruzioni in cuffia, faceva mirabilmente agire centinaia di spettatori (Santarcangelo 2010)? o Il drago d’oro di Roland Schimmelpfennig nell’esemplare allestimento del Teatro Stabile Sloveno di Trieste (Mittelfest 2011)?
Chi ha mai più sentito parlare di Tokyo notes del grandissimo regista-autore giapponese Oriza Hirata (Santarcangelo 2011), del travolgente L’entêtement del Théâtre des Lucioles, uno degli allestimenti più brillanti di un testo di Spregelburd visti in Italia (Festival delle Colline Torinesi, 2011), di Los hijos se han dormido ed Espia a una mujer que se mata, le due riscritture cechoviane di un maestro del teatro argentino come Daniel Veronese (Napoli Teatro festival, 2012). Chi ha avuto modo di assistere, dopo Santarcangelo 2012, a Schubladen, l’aguzza rievocazione dell’identità divisa delle due Germanie, da parte del collettivo femminista She She Pop?
Che fine hanno fatto Barbara Matijevic & Giuseppe Chico, Edit Kaldor, Philippe Quesne? E in quale terra di nessuno si è perduto Rodrigo García, che di queste ribalte è stato per anni una delle star più richieste?
Gli spettacoli che vengono invitati nei nostri festival, siano pure degli assoluti capolavori, sono condannati a terminare lì la loro corsa. Stravaganze estive delle quali non vale la pena di occuparsi. Bizzarrie da lasciare in pasto a una ristretta cerchia di specialisti. Che i festival servano anche, in una certa misura, ad aggiornare gli addetti ai lavori su quanto di diverso e stimolante accade altrove è fuor di dubbio. Ma che il meglio di ciò che vi si mostra non possa poi essere sottoposto a un’utenza più ampia mi pare francamente inaccettabile. Eppure è questo che avviene: la paura del nuovo, la passiva sottomissione a una miope logica degli scambi, l’incapacità di consorziarsi per ammortizzare i costi di onerose tournée, o semplicemente l’indifferenza dei teatranti verso tutto ciò che avviene fuori dal proprio orto, fanno sì che il nostro mercato teatrale sia un sistema chiuso, autoreferenziale, in gran parte impermeabile a qualunque scossa proveniente dall’esterno.
Si può scommettere che la stessa sorte toccherà nei prossimi mesi a La imaginatión del futuro – il discusso, controverso, interessantissimo spettacolo in cui il gruppo cileno La re-sentida prende le distanze dal mito nazionale di Salvador Allende – che è stato il “caso” di quest’anno a Santarcangelo, come l’anno scorso lo era stato Leġionāri del regista lettone Valters Silis.
L’estate prossima, dunque, se esisteranno ancora i festival, se esisterà ancora il teatro italiano, se esisteremo noi tutti, sicuramente sarò di nuovo pronto a girare l’Italia per vedere spettacoli e riferirne. Ma inevitabilmente mi sembrerà che questo sforzo abbia perduto un altro po’ di senso.
Interessante e giustissima riflessione. La vera sfida, infatti, non è programmare un festival che, nella sua eccezionalità, può mettere a segno colpi eccellenti per un pubblico che cerca l’eccezione. La vera sfida dovrebbe essere quella dei teatri che hanno il coraggio di “spalmare” l’idea “eccezionale” di festival per una stagione intera, cercando il dialogo con un pubblico che non cerca l’eccezione, ma che vuole l’eccellenza nella quotidianità.
Il che non significa – intendiamoci bene – che i festival non debbano fare quel che fanno, anzi: la loro funzione è importantissima, secondo me, proprio in quanto assumono il loro compito di spazio dell’eccezione.
Comunque sia… il Théâtre de La Mezzanine è stato portato per la prima volta in Italia all’interno della stagione di Teatri di Vita nel 2000, e poi nuovamente nel 2001, prima di arrivare a un festival nel 2002. E’ solo un piccolo esempio di quel che dicevo… fermo restando che il nostro sforzo di due anni è stato altrettanto vano, visto che il gruppo è stato poi invitato solo da un festival. E comunque anche questo sarebbe interessante da analizzare: il fatto che della Mezzanine ci si sia accorti solo a un festival, dopo due anni di frequentazione di una normale stagione teatrale, dimostra che i festival possono continuare a piazzare fuochi d’artificio contando sul fatto che avranno sempre maggior visibilità delle stagioni, anche di quelle più coraggiose (o impavide), e a prescindere dalla reale capace di penetrazione delle loro proposte nella vita teatrale quotidiana. Meglio il centro commerciale dove trovi tutto insieme e tante attrazioni, oppure girare per i negozietti di quartiere dove talvolta trovi cose preziose, ma solo cercando cercando? Quei negozietti che, ignorati a lungo, finiscono poi per cedere al mainstream, rinunciando alle cose preziose pena il non riuscire più a tirare avanti…?