“Fuck me(n)”, l’insieme di tre monologhi scritti da Spinato, Sgorbani e Traverso per il progetto di Renata Ciaravino sulla crisi della maschilità costituisce un perimetro troppo stretto nel quale la convincente prova d’attore di Alex Cendron, diretto da un acerbo Carlo Compare, conduce a esiti un po’ deprimenti – Renato Palazzi
Conosco Giampaolo Spinato, Massimo Sgorbani e Roberto Traverso praticamente da tutta la vita. Ne ho visto e spesso apprezzato altri testi, in passato. Uno di loro è stato anche, per lungo tempo, un collega. Lungi da me, quindi, l’intento di prendermela in qualunque modo con gli autori dei tre copioni che compongono Fuck me(n), lo spettacolo presentato al Teatro Out Off di Milano. Lo spazio dato alla nuova drammaturgia italiana è sempre benemerito. Non credo si possa dire, però, che mettere insieme queste tre brevi pièce sia stata in sé un’idea riuscita.
A immaginare l’inedito accostamento è stata un’altra drammaturga, Renata Ciaravino, che ha chiesto a ciascuno di loro di realizzare per la sua Compagnia Dionisi un breve scritto sul tema comune della crisi della maschilità, sulle debolezze e sulle contraddizioni del maschio. Il progetto era indubbiamente interessante, ma un po’ rischioso per un doppio motivo: perché imporre a qualcuno di lavorare su un argomento così specifico, e in qualche modo già così rigidamente indirizzato, può comunque diventare limitante. E perché la breve misura di cui i tre autori si trovavano a disporre, legata per giunta alla forma del monologo, non favoriva in ogni caso l’articolazione e l’ampiezza del pensiero.
Una ventina di minuti di durata possono risultare pochi o tantissimi a seconda dell’andamento che si riesce a imporre loro. In un simile lasso di tempo – per essere chiari – puoi anche mettere a fuoco il più originale degli spunti, ma poi ti resta poco spazio per svilupparlo, e non hai vari personaggi che intervengano nell’azione consentendo una molteplicità di voci o di punti di vista. La costruzione della vicenda, in questa prospettiva, non può che essere immediata, sommaria. E così aumenta il pericolo di doversi aggrappare a dei cliché.
Una certa prevedibilità, ad esempio, potrebbe essere imputata al testo di Spinato, quello che apre il trittico, dove si rappresenta un cinico docente universitario che non esita a servirsi del proprio potere accademico per ottenere favori sessuali dalle studentesse: la meschinità dell’individuo si evidenzia soprattutto di fronte a una ragazza che durante uno di questi incontri viene colta da un malore. Il secondo, quello di Sgorbani, incentrato su un padre fanatico della forza fisica, che attraverso gli ossessivi resoconti di celebri match di pugilato educa il figlio a ideali di violenza, e forse questa violenza arriva ad applicarla egli stesso nei confronti della moglie, è meno scontato, ma un po’ prolisso e ripetitivo nel suo taglio maniacale, senza una vera progressione drammatica.
Il terzo, quello di Traverso, ispirato alla vicenda vera del padre che ha dimenticato il figlioletto nell’auto arroventata dal sole, provocandone la morte, è invece asciutto e serrato, ma non si discosta dal nudo fatto di cronaca.
Il problema, però – ripeto – non è nella qualità dei singoli testi, ma nel tratto complessivo dell’operazione. Sicuramente la regia del giovane Carlo Compare è troppo acerba: le sue uniche, vere invenzioni, non propriamente risolutive, consistono nel fatto che l’attore, Alex Cendron, si spoglia via via fino a restare metaforicamente nudo ed esposto, e che egli deve faticosamente spostare e ribaltare, all’inizio delle varie scene, una specie di emblematica gabbia metallica da cui, nell’immagine conclusiva, pende come un impiccato o una marionetta ormai inerte. E lo stesso Cendron, che pure è bravissimo, fatica un po’ a dare ritmi e intonazioni differenti ai suoi vari personaggi.
Ciò che meno convince è comunque l’accostamento di tre testi che esprimono una visione così cupa e sconsolata della vita da non lasciare ulteriori spiragli di riflessione. Chi mi segue dovrebbe sapere che non pretendo chissà quali serate ridanciane. Ma che un teatro come l’Out Off, col suo disperato bisogno di rilanciarsi, di sfatare un’immagine un po’ triste e rassegnata, dia l’impressione di promuovere delle adunate di depressi, con tanto di psicanalista al seguito – per quanto simpatico e brillante – chiamato a introdurre l’argomento, è a mio avviso un autentico controsenso.
In questa struttura, che pure vanta dei meriti storici, si continua a respirare un’atmosfera vagamente punitiva, molto anni Settanta, più grigia che severa, che risulta francamente poco invogliante.
Visto al Teatro Out Off di Milano. Repliche fino al 15 marzo 2015
Fuck me(n)
scritto da Giampaolo Spinato, Massimo Sgorbani e Roberto Traverso
regia di Carlo Compare
con Alex Cendron
musiche originali di Paolo Coletta
luci di Carlo Compare
da un’idea di Renata Ciaravino
premio GREAT/Miglior monologo
Accademia Nico Pepe/Udine 2013
Fortunatamente anche noi depressi abbiamo un luogo dove anche perché un luogo frequentato da persone gioiose e risolte ci provocherebbe un trauma maggiore e emarginazione . Grazie per il suggerimento
Simone sommacal
Egregio Signor Palazzi, io non La conosco personalmente, ma evidentemente Lei conosce me e gli altri spettatori, che hanno assistito alle repliche dello spettacolo Fuck Me(n); il che appare straordinario e anche inquietante. Diversamente non si spiega come Lei abbia potuto, con tanta sicumera, qualificare me e gli altri spettatori come “depressi” chiamati in “adunata” (proprio non Le è venuto in mente un altro termine …) ad assistere ad uno spettacolo che esprime solamente “una visione così cupa e sconsolata della vita da non lasciare altri spiragli di riflessione”.
O forse l’appellativo da Lei affbiatomi discende dalla Sua personalissima interpretazione di ciò a cui ha assistito. E allora colgo l’assoluta gratuità e strumentalità dei Suoi commenti. Fatico a comprendere a cosa serva un “consiglio” del signor Palazzi, che giudica depressi coloro che abbiano avuto la “disgrazia” di assistere ad uno spettacolo (uno qualsiasi, secondo il Suo pensiero, posto che, a Suo dire, in questo teatro “si continua a respirare un’aria vagamente punitiva”) proposto dall’Out Off. Un consiglio serve certamente per orientarsi, anche se non necessariamente per essere pedissequamente seguito: poiché Lei ha ritenuto di pubblicarlo quando le repliche di Fuck Me(n) sono ormai terminate, non ha certo lasciato ad alcuno la possibilità di valutarne l’utilità. Ma forse non era questo il Suo intento. Dal cazzotto a freddo che Lei ha mollato alla bocca dello stomaco dell’Out Off pare di capire che il Suo obiettivo non fosse tanto quello di fornire un’indicazione sullo spettacolo Fuck Me(n), ma affondare il coltello nei confronti di questo teatro. Da profano, non ne ho capito le motivazioni; forse altri, più attrezzato di me, le avrà comprese benissimo.
Raffaele Cauzzi
“Si criticano in un modo più determinato e a volte spietato proprio le persone dalle quali pretendi di più.”
È passato tanto tempo dal 30 novembre 1976 dove con H. Hitsch ho iniziato l’attività dell’ OUT OFF. Il lavoro iniziato nella cantina di Monte Santo è stato totalmente autogestito (fino all’ ’81, poi chiuso per inagibilità). Anche la sede di via Duprè è stata realizzata senza alcun sostegno economico pubblico.
Tu Renato Palazzi c’eri e ricorderai le tante proposte alle quali hai assistito, e di cui hai scritto. In ogni caso puoi rileggere lo scritto di Franco Quadri dove, presentando l’attività dei primi trent’anni con la sua straordinaria sensibilità e unica capacità di lettura, concludeva con un “Grazie Mino”. Nel 2004 con J. Fabre è stata inaugurata la sede di Mac Mahon e con nuovo entusiasmo e nuove energie si è cominciato un periodo altrettanto proficuo e importante. Certo l’impegno economico per realizzare la sede è stato molto impegnativo e questo pesa ancora oggi, a questo proposito ti dico che non conosco altri teatri a Milano che si siano esposti economicamente tanto quanto noi. Considerando poi che i costi di gestione sono triplicati rispetto a via Duprè, a fronte di contributi istituzionali uguali o addirittura inferiori, tutto, lo riconosco, è diventato più complicato. Certo a un critico come te questi problemi contingenti non interessano e sono totalmente d’accordo, tu vieni e valuti quello che vedi. Lasciami dire però che questo è un paese strano e io che sono a par tuo altrettanto testimone di quello che accade nel nostro mondo teatrale, mi domando e ti domando come mai a suo tempo non hai scritto nulla sul CRT diretto dal “professore”? Lì la situazione per anni è stata imbarazzante, poche proposte interessanti pochi o zero spettatori a fronte di una montagna di denaro pubblico e nonostante questo poi è fallito! Questo è un caso che conosco bene, ma in questo paese quanti altri casi come il CRT ci sono stati e ci sono ancora? Forse non se ne parla perché tanti altri sono i territori del nostro quotidiano che sono altrettanto corrotti? I dati dicono che siamo al 69° posto al mondo proprio per corruzione, malaffare e poca trasparenza! Il teatro italiano non soffre di questo? Questi sono i veri problemi che deprimono, nessuna rassegnazione da parte nostra, ad essere punitivi non siamo noi, ma le istituzioni che non favoriscono chi lavora al meglio o almeno ci prova. Da quarant’anni tutto è ingessato e scontato. La tua visone va allargata, troppo facile e vigliacco sparare alla croce rossa. Io mi auguro, che la tua analisi critica nei nostri confronti tu l’abbia espressa e la continuerai ad esprimere, dettato dal motivo che dicevo in apertura, ma se ne hai altre di motivazioni sii veramente più circostanziato e ancora più diretto, e fallo con tutti, ma proprio con tutti.
Se lo riterrai opportuno mi darai una risposta pubblica.
Mino Bertoldo (Fondatore e direttore del Teatro Out Off)
Caro Bertoldo,
a questo punto, francamente, non vi capisco. Invitate i critici perché esprimano un giudizio su ciò che fate, e se per caso il giudizio non coincide con le vostre aspettative lo prendete come un affronto.
Se dopo aver visto uno spettacolo se ne scrive bene, si è gli unici ad aver capito. Se ci si astiene dallo scriverne per non infierire sollecitate, chiedete ragione. Se non se ne scrive bene, scoppia una specie di psicodramma. Questo gioco lo conosco da più di quarant’anni. La novità è che, grazie ai social network, quando ora si dice male si viene sospettati di chissà quali complotti.
Poiché, evidentemente, parlando di Fuck me(n) non mi sono spiegato bene, proverò a riepilogare la mia posizione. Come sai, seguo l’attività dell’Out Off da quando è nato. Ho visto quasi tutti i vostri spettacoli, e li ho recensiti per lo più calorosamente. Anche dopo il passaggio nella sede di via Mac Mahon credo di non avervi fatto mancare le mie attenzioni: salvo eventuali, sporadiche riserve, ho sempre apprezzato il lavoro registico di Loris.
Capita, però, che da un paio di stagioni entrando all’Out Off vi si colga una deriva malinconica: ultimamente ho trovato platee semi-vuote, spesso non più di una dozzina di persone, anche di fronte a proposte di valore, da Prodigiosi deliri ad Affabulazione. La sensazione è quella di un teatro un po’ dimesso, un po’ abbandonato a se stesso, che dopo il trasferimento da via Dupré non ha mai acquisito una sua piena identità, una sua vita vera.
Fossi in te, anziché amareggiarmi per un giudizio negativo, che non mi pare la fine del mondo, mi chiederei se per caso non c’è qualcosa da rivedere nella linea, nella programmazione. L’accostamento dei tre testi che compongono Fuck me(n), quello sul docente che abusa delle allieve – una delle quali, anoressica, viene colta da malore – quello sul padre che educa il figlio alla violenza, fra le morbose fantasie di fare sesso con la moglie divenuta paraplegica, quello del padre che dimentica il figlioletto nell’auto, a morire sotto il sole, era a mio avviso oggettivamente sbagliato, al di là della qualità delle singole pièce. Tutto ciò che è passato dall’Out Off in questi ultimi tempi sembra andare però nella stessa direzione.
Vogliamo rileggere le indicazioni con cui venivano presentati alcuni spettacoli proposti di recente? Mitigare il buio, di Francesca Sangalli (ottobre 2011): «Il buio interiore resta tale. E per sopravvivere rimane l’eroina, lenimento all’angoscia, espiazione di colpe non formulate, surrogato di affetti familiari mancati…». Pornofuneral di Massimo Bavastro (febbraio 2013): «A raccontarlo in due frasi, Pornofuneral è un testo sull’elaborazione del lutto. Dove a elaborare il lutto è il morto stesso». 4.48 Psychosis di Sarah Kane, con la pur bravissima Elena Arvigo (giugno 2014), è l’auto-descrizione che fa l’autrice inglese del proprio stato mentale poco prima di impiccarsi coi lacci delle scarpe: «non è dunque l’ultima lettera di una suicida, ma una preghiera, una richiesta di ascolto e di amore».
In mezzo c’è stata La cognizione del dolore di Gadda, che è un testo a tratti trucemente divertente, ma non proprio una botta di allegria. E fra i prossimi appuntamenti, è in arrivo Maternity blues, sempre con la Arvigo (dal 24 marzo), così introdotto: «In un ospedale psichiatrico giudiziario si incontrano quattro donne che hanno ucciso i loro bambini…Maternity blues è infatti una denominazione della depressione post-partum».
Forse non sono io che sparo sulla Croce Rossa, forse è la Croce Rossa che spara su se stessa.
Voglio spiegarmi fino in fondo. Non è che mi aspetto – lo ribadisco – spettacoli ridanciani. Ma credo che i gusti stiano cambiando, e che occorra prenderne atto. Magari sbaglio, ma penso che l’avvento delle due “multisale” milanesi abbia spostato il concetto stesso di fruizione teatrale. Quando, al Franco Parenti, vedo il foyer affollato di spettatori che si distribuiscono nei vari spazi, che si incrociano entrando in una sala e uscendo da un’altra, quando all’Elfo Puccini trovo un pubblico che va a teatro come al cinema, per lasciarsi trascinare dal racconto di grandi storie, sento che siamo di fronte a un fenomeno inedito, a un’autentica svolta.
E’ una nuova forma di consumo culturale, un consumo di qualità, che non è fatto di star televisive e di spettacoli commerciali, ma di sedi comode e accoglienti, di invitanti bistrot interni dove si possa sostare per discutere di quello che si è visto, di proposte intelligenti ma capaci di coinvolgere vaste platee, qualcosa di vicino a ciò che anni fa si tentava di definire come “teatro popolare di ricerca” (vedi Arturo Cirillo, vedi Punta Corsara, ecc.).
Per questo certe serate all’Out Off mi fanno pensare agli anni Settanta, a quell’epoca in cui il teatro sembrava avere una vocazione punitiva, tutta travagli e sofferenze interiori, in cui gli ambienti erano scomodi e disadorni, e lo scarso pubblico veniva vantato come segno di aristocrazia intellettuale. Ma quell’epoca è finita, e chi non se ne accorge rischia di rimanere indietro.
Non capisco perché te la prendi con Sisto Dalla Palma, il professore, che non c’è più e non c’entra nulla. Detto en passant, l’esempio che porti non è comunque azzeccato, perché con me il professore ha litigato furiosamente, non ci siamo parlati per anni in seguito a un articolo in cui criticavo la gestione del Teatro dell’Arte. Mi permetto però di ricordarti che, anche nei suoi momenti più difficili, il CRT del professore ha prodotto The end dei Babilonia Teatri e Carnezzeria, Cani da bancata, La scimia di Emma Dante.
Anche questi tuoi vecchi rancori, questi mugugni, questo recriminare sul passato anziché progettare un nuovo futuro fanno parte, più o meno direttamente – lascia che te lo dica – di quel clima di depressione che tanto ti ha offeso.
Renato Palazzi
Non condivido la sua analisi e la sua critica; non la condivido in modo granitico, monolitico. Sono un professore universitario e da anni mi occupo di uomini, di donne, di figli, di famiglie; del loro conflitto, della loro crisi. Ho visto Fuck me(n) e sono stato colpito dalla sua drammatica lucidità nel rappresentare un aspetto della realtà. Non tutta la realtà, ma una sua parte. Certamente solo una parte della vita, non la vita. Per questo, pur essendo stato rapito dai tre monologhi, non sono depresso: depresso è chi confonde la parte con il tutto; la parte della vita che il teatro mette in scena con la vita stessa. Ho visto in scena tre uomini veri. Uomini ingabbiati, pestati dalla vita come su un ring: dalle mogli, dai figli, dalle figlie degli altri. Ho visto uomini sopraffatti dai loro miti e dalla loro arroganza: dall’efficienza sessuale, fisica, professionale. Li ho visti, sono in mezzo a noi, sono una parte di noi. Altri se ne sarebbero potuti mettere in scena: gli uomini sopraffatti dal proprio narcisismo (il narcisismo critico, ad esempio). Quanto al teatro non so, non è il mio mestiere. Mi permetto di notare che nessuno scrive che Shakespeare si rivolgeva ad adunate di depressi perché ha messo in scena il Macbeth. Per tacere di Sofocle e del suo Edipo re. E che dire di Beckett: depresso anche lui a forza di attendere. Se scrivessimo che costoro si sono rivolti ad adunate di depressi forse saremmo ingiusti: narcisisti, appunto. Suvvia, è solo una parte della vita.
Carlo Rimini
Rispetto e ammiro le granitiche certezze del professor Rimini. Ma di cosa stiamo parlando? Non capisco cosa c’entrino Shakespeare e Beckett, al limite non c’entrano neppure, in se stessi, i testi di Spinato, Sgorbani e Traverso. Non mi pare di avere mai detto che Fuck me(n) fosse uno spettacolo per depressi. Credevo che stessimo parlando della programmazione dell’Out Off, di come questo lavoro si inserisca in un arco più ampio di proposte.
Magari, se questi tre testi fossero stati rappresentati in un altro teatro, avrebbero dato più forza a una stagione complessivamente leggerina. Magari, se insieme a due di questi testi ne fosse stato inserito uno di un autore più portato ai toni ironici, il “trittico” avrebbe funzionato benissimo. Mettere insieme tre scritture come quelle degli autori in questione è a mio avviso, tecnicamente, un azzardo. Programmare questo trittico in un periodo in cui arriva anche uno spettacolo sulle madri che uccidono i loro bambini mi sembra calcare troppo i temi patologici. Ma ovviamente è un punto di vista soggettivo.
Credevo però, dopo quasi cinquant’anni di onorata militanza critica, di essermi conquistato giorno per giorno il diritto di esprimere un’opinione, giusta o sbagliata che sia, senza subire degli attacchi intimidatori. Ciò non significa che io abbia sempre e per forza ragione. Ma se qualcuno pensa che io non abbia ragione, deve semplicemente smettere di leggermi e scegliere di dare retta a qualcun altro. È così che funziona. E personalmente non mi sognerei mai di metter becco in questioni che riguardano le competenze del professor Rimini.
Se però non ho ragione quando esprimo delle riserve su Fuck me(n), non è detto che avessi ragione quando parlavo bene o benissimo di Prodigiosi deliri o della Cognizione del dolore. Ma allora, guarda caso, nessuno mi ha accusato di narcisismo.
Resta il fatto che la battuta sulle adunate di depressi – che era appunto una battuta, da non prendere alla lettera – voleva porre l’accento sul declino di un progetto, voleva essere un tentativo di spiegazione del perché uno degli spazi culturalmente più brillanti della Milano di fine Novecento si sta ripiegando sui suoi problemi. Il pubblico dell’Out Off, con buona pace del professor Rimini, è progressivamente in calo, quindi forse dimostra di non gradire troppo certe scelte. Dobbiamo dire che sta andando tutto bene?
Ho il sospetto che, dietro questo fuoco di sbarramento al centro del quale mi trovo al primo accenno di giudizio negativo, ci sia l’intento di imporre un consenso preventivo. E questo, francamente, non mi piace.
Renato Palazzi
Avete voglia Signor Palazzi & C. a parlare del Franco Parenti e dell ‘ Elfo , quelle sono multisale che prendono una paccata di soldi e possono permettersi di tutto. L ‘ Out Off e ‘ un piccolo teatro con un costo del biglietto che anch ‘ io , che prendo 800 euro al mese mi posso permettere . Davanti a una scelta di teatri che propongono una drammaturgia di livello mi sento molto più a mio agio in questo spazio dove non trovo un pubblico Armani dressed con bistrot ma che sento invece più vicino . E ‘ questa la depressione ? Va bene , sarò un depresso ma con la sua storia da raccontare che passa attraverso l esperienza di questo teatro che seguo da anni . Il resto e ‘ polvere , sono solo parole che passano .
Simone Sommacal
Gentile amico, questo è il suo secondo commento allo stesso articolo e non si tratta di una replica. L’invito a moderare gli interventi, altrimenti sarò costretto a farlo io. Cordiali saluti. Enzo Fragassi
Caro Palazzi,
per te il teatro è un mondo a parte, che esiste magicamente puro e stimolante nonostante gli squallori quotidiani dei quali quotidianamente siamo testimoni e in questo paese nel mondo del teatro c’è chi sta bene e c’è chi è depresso. Insisti nel sottolineare che è un mio problema, che sto lì a “recriminare, a mugugnare e a vivere con rancore, anziché progettare un nuovo futuro”. Tu dici che i gusti stanno cambiando e noi del Teatro OUT OFF non stiamo al passo. Che ci sia un VERO problema di calo generale di pubblico a Milano e in Italia credo che ce ne siamo accorti tutti, ad esempio l’abbonamento Invito a Teatro in pochi anni l’hanno acquistato il 40%in meno. Tu però, parlando di “sale semideserte”, parli di noi e questa è una notizia tendenziosa. Quando porti come esempio positivo altri teatri milanesi devo riconoscere che loro sicuramente sono più bravi di noi, ma hanno anche molte più risorse. Non trovo corretto che tu scriva che abbiamo poco pubblico anche perché negli ultimi tempi hai visto sei spettacoli su 468 repliche totali. In tanti anni di lavoro non ho mai pensato ecco la formula giusta, solo così bisogna continuare perché è il pubblico a chiedercelo. Abbiamo proposto e continueremo a fare, se ci sarà ancora possibile, lavori più o meno rischiosi, perché questo deve essere il nostro ruolo, il vero senso del nostro lavoro, magari sbagliando, è normale. Scrivere che non mi rendo conto del nuovo che avanza, che programmo spettacoli proprio per non favorire “questo disperato bisogno di rilanciarci, di sfatare una immagine un po’ triste e rassegnata” è una mostruosità. Riconosco di essere in difficoltà, ma masochista proprio no, sono incazzato, non depresso.
Mino Bertoldo
Caro Bertoldo,
Capisco e apprezzo il tuo tentativo di farmi passare per un idiota fuori dal mondo, ma non ci casco. Ti ho già dedicato fin troppo tempo. Prosegui pure questo dibattito coi tuoi simpatici amici, ma, per favore, astieniti dal chiamarmi di nuovo in causa.
Ti auguro buone cose.
R.P.
Che invito minaccioso! Come farà mai il signor Enzo a moderare un intervento così discreto e pacato? Cancellandolo o denunciando il signor Simone? A chi e perché non ci è dato saperlo. Che poi non sia una replica è davvero curioso e tutto da dimostrare. Mi scuso anticipatamente, caro Fragassi, se sono una sostenitrice della libertà di pensiero e d’espressione. Pensavo, sbagliando, che questo fosse un blog aperto. Peccato, occasione persa.
Gentile amica,
sicuramente è colpa mia, ma il concetto di “invito minaccioso” mi sfugge… Soprattutto se penso al suo contrario, “minaccia invitante”. Bah, forse è lei che ha voluto leggere nelle mie parole alcunché le consentisse di avere anche oggi il suo nemico quotidiano. Mi spiace, non ha funzionato. Il blog è e rimane aperto, ma solo a chi ha qualcosa da dire. Cordialmente. e.f.
Gentile Renato Palazzi siamo Antonio Rezza e Flavia Mastrella e le scriviamo in merito alle sue riflessioni sulla condizione del teatro oggi e, nello specifico, sulla condizione del Teatro Out Off. Abbiamo sentito Mino Bertoldo molto colpito da ciò che lei ha scritto e volevamo solo riferirle come il Teatro Out Off abbia accolto il nostro lavoro negli anni passati e di come sia stato per noi il posto ideale dal 2005, per attuare il programma di interazione con il mondo teatrale. Vogliamo sottolineare quanto è importante il lavoro di Mino, che apre il suo spazio alle giovani compagnie, alle esperienze performative e poetiche appena nate; l’Out Off ha avuto un’utilità sociale. Un luogo di esplorazione e di messa in scena, ma anche di confronto tra arte e persone. Crediamo che spazi come l’Out Off, che esistono tra grandi difficoltà, siano luoghi decisivi per chi deve capire dove andrà a finire il suo linguaggio espressivo. I teatri grandi sono fondamentali perché esistono quelli più piccoli. E viceversa. Nessuno è grande da sé e nessuno è piccolo senza il confronto. Se venissero a mancare spazi come l’Out Off le compagnie che cercano una dimensione antagonista andrebbero a morire. Tante volte giustamente. Altre volte sarebbe un peccato. Possiamo dirle che in anni dove non trovavamo sbocchi per la nostra onnipotenza, l’Out Off è diventato un luogo di azione mitologico, con eventi che andavano anche al di là della rappresentazione. Sul clima depressivo che si respira in tutti i teatri, e non solo in alcuni, crediamo che la tristezza sia di chi se la porta dietro, o è semplicemente il risultato di una sorta di abbattimento culturale operato dalle istituzioni nei confronti delle avanguardie e della cultura alternativa ai mass media, un problema che da anni funesta i nostri territori e che ci ha tolto le possibilità di ricerca, sia in campo artistico che scientifico. È in atto la parte finale di un azzeramento, un cambiamento epocale. E tanti si sono distratti a imparare l’uso dei nuovi elettrodomestici mediatici e non si sono accorti dello scempio in ascesa. Qualcuno ogni tanto si sveglia e, sopraffatto dalla tristezza, accusa gli imbavagliati; nel frattempo i nativi digitali vanno verso il corpo. Purtroppo queste nuove generazioni di artisti sono costrette a farsi strada in spazi lottizzati, mettendo a rischio la propria creatività che un tempo i teatri come l’Out Off avrebbero potuto proteggere e nutrire. Un luogo può essere triste solo quando l’essere umano si è arreso alla sua disfatta. Nei centri commerciali non c’è tristezza ma c’è disfatta. Non sempre chi ride non si è arreso.
Antonio Rezza e Flavia Mastrella
Cari Rezza e Mastrella,
vi ringrazio per l’intervento, e apprezzo sinceramente la vostra lealtà nei confronti di Mino Bertoldo. Questo sentimento generoso vi fa onore. Probabilmente avete equivocato sulla sostanza di quello che ho scritto, o siete stati male informati: lungi da me l’intenzione di negare i meriti storici dell’Out Off, anche se da un paio di stagioni la platea è troppo spesso vuota (un problema che certo voi non avete avuto, dato che i teatri li riempite col vostro solo nome). Non credo, però, di avere altro da aggiungere a quanto ho già espresso diffusamente sull’argomento. Se avete voglia di parlarne direttamente con me, sono a vostra disposizione. Ma proseguire pubblicamente questo dibattito – che riguarda in definitiva una recensione negativa, dopo quasi quarant’anni di assiduo sostegno – rischia a mio avviso di diventare stucchevole.
Renato Palazzi