Ambra Angiolini offre una prova interpretativa complessivamente più che dignitosa. Ma il testo di Stefano Benni mescola con disinvolto mestiere provocazioni e buoni sentimenti, acri paradossi e banali esercizi retorici. Fra buchi nell’ozono e bambini palestinesi rischia, a lungo andare, di risultare inoffensivo – Renato Palazzi
Vestita di un immacolato abitino bianco di foggia infantile, i capelli di un rosso acceso raccolti in una serie di buffe crocchie da personaggio dei fumetti o di un cartone animato, l’aspetto sbarazzino di un’Alice nel paese delle meraviglie precipitata in un paese che le sue meraviglie le ha perdute da tempo, Ambra Angiolini, ne La misteriosa scomparsa di W, non fa che parlare, dall’inizio alla fine. Parla incessantemente, in un flusso ininterrotto, senza quasi prender fiato, accompagnando le parole con qualche gesto stilizzato. Parla cambiando ritmi e intonazioni, parla passando di continuo dallo stupore alla rabbia, dalle eteree metafore a un turpiloquio da carrettiere. Ma di cosa parla, esattamente, Ambra?
So che la domanda rischia di apparire oziosa. Di cosa davvero parli Ambra – intendo dire dei reali contenuti del suo monologo – non interessa troppo probabilmente alla stessa Ambra, preoccupata soprattutto di portarlo in fondo senza danni. Non interessa al regista Giorgio Gallione, che bada solo a fornire una veste formale accattivante a quella sorta di contenitore di suggestioni diverse che è, di fatto, lo spettacolo. Non interessa alla platea festante, venuta unicamente per assistere all’epifania del suo idolo. Forse, in definitiva, non interessa neppure a Stefano Benni, l’autore di questo testo tanto pretenzioso quanto sostanzialmente inconsistente.
Di cosa parla, La misteriosa scomparsa di Wu? Me lo chiedo perché in definitiva, al di là di un certo esile filo conduttore, non credo di averlo davvero capito. È una sorta di autobiografia fantastica di un’ipotetica ragazzina che scopre le brutture del mondo pochi giorni dopo essere nata, un’emblematica “V” che deve confrontarsi con la perdita di tutte le W che avrebbero potuto completarla, e farne un essere realizzato: il nonno Wilfredo, che muore sotto i suoi occhi, in coda all’ufficio postale, il fidanzato Wolmer, con cui tiene una minuziosa contabilità di amplessi e orgasmi, ma la storia finisce male, e poi via via un’altra serie di abbandoni da parte di Wilma, l’amica del cuore, o del coniglio Walter, l’animaletto amato, fino a una sorta di catarsi finale, di riconoscimento di sé – ma alquanto artefatto – come autonoma individualità finalmente compiuta.
Il tutto svaria piuttosto meccanicamente fra slanci nostalgici e improvvise ribellioni, fra buchi nell’ozono e bambini palestinesi, in un ribollente affastellarsi di temi e di umori che rischia, a lungo andare, di risultare inoffensivo. Benni mescola con disinvolto mestiere provocazioni e buoni sentimenti, acri paradossi e banali esercizi retorici. In tutto questo, francamente, stento a vedere l’arguzia o la poesia che vi hanno colto certi colleghi: vedo piuttosto una buona dose di furbizia, quella furbizia che sempre caratterizza questo autore a mio avviso sopravvalutato.
Nella scenografia a effetto di Guido Fiorato – fra tubi al neon e statue di conigli – la Angiolini offre una prova interpretativa complessivamente più che dignitosa. Per essere l’unica autentica diva pop del nostro teatro, credo che la sua presenza, nell’occasione, sia stata un po’ sprecata: il testo di Benni, purtroppo, non è né totalmente pop, né dotato di particolari finezze drammaturgiche. Il suo difetto è di restare a metà strada. Si potrebbero forse trovare dei copioni più corposi da affidarle con profitto.
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Repliche fino al 19 aprile 2015
La misteriosa scomparsa di W
di Stefano Benni
regia: Giorgio Gallione
scene e costumi: Guido Fiorato
musiche: Paolo Silvestri
luci: Aldo Mantovani
produzione: Teatro dell’Archivolto