Magistralmente diretto da Peter Stein e interpretato da una perentoria Maddalena Crippa con altri validissimi attori, il testo dell’83 di Botho Strauss ha perso la sua carica profetica ma rimane un caposaldo del teatro post-drammatico – Renato Palazzi
La vicenda del Sogno di una notte di mezza estate si svolge tra un’Atene irreale – un puro spazio dell’immaginario, come spesso lo sono i luoghi della geografia shakespeariana – e un bosco fiabesco evocatore di ombre e di illusioni. A incarnare il potere sono degli ipotetici sovrani i cui nomi attingono alla memoria mitologica, Teseo e Ippolita, che hanno i loro doppi fantastici nei signori degli elfi e delle fate, Oberon e Titania. Anche il ritorno alla ragione delle due coppie di giovani amanti, se non sana del tutto le inquietudini generate dallo scambio notturno, riporta almeno una parvenza di armonia nel disordine dei sentimenti.
Der Park, il testo dell’83 di Botho Strauss che della commedia di Shakespeare è una sorta di calco degradato, è lo specchio di una società ormai incapace sia di ordine che di vero disordine, sia dell’aura del peccato che di una effettiva e totale innocenza. Nel bosco di Strauss, che è il parco di Berlino o di un’altra metropoli odierna, l’eros è ridotto a desiderio sterile o sfogo di violenza, il brivido della trasgressione è un impulso dimenticato, perché non paiono esserci norme da rispettare, quindi neppure da trasgredire. Persino la morte, che appare con dita adunche verso la fine, coinvolta in una sorta di relazione amorosa con uno dei personaggi femminili, ha qualcosa di asettico, tra rassegnato e indifferente: «Dove sono le fiamme dell’inferno? Le porte spalancate? – chiede stupita la donna – Dov’è il male?».
Più che una riscrittura del Sogno di una notte di mezza estate, Der Park è la feroce epifania di un vuoto, di un’impossibilità di ricollocare l’ambiguo gioco degli smarrimenti affettivi in un mondo arido e disperato, guidato da tutt’altre aspettative. Strauss, nella breve introduzione in cui dedicò il testo a Peter Stein, per il quale lo compose – e che ora lo ripropone al Teatro di Roma – parla di figure del nostro tempo pervase e come possedute da quei loro antesignani cinquecenteschi, in una luce vagamente esoterica. Ma è un’incarnazione destinata a restare a metà, una seduta spiritica che non riesce: e proprio in questo scarto, in questa distanza fra le epoche e le culture si manifesta tutta la visione graffiante, gelidamente nera dell’autore.
L’azione è, per vari aspetti, tutta costruita al negativo, una trama di atti mancati, di impulsi sospesi: al centro degli avvenimenti ci sono Oberon e Titania, divinità decadute scese nel parco per cercare invano di risvegliare alla vita – alla passione, all’eccitazione, al tumulto dei sensi – un’umanità distratta, cinica, svogliata: i loro sforzi, in verità piuttosto goffi, di adescare i passanti sono destinati a non avere esito, e loro stessi sono condannati a omologarsi, diventando parte di quella società che vorrebbero scuotere: Oberon, dopo un addio ai suoi poteri magici che fa pensare al Prospero della Tempesta, indosserà i panni di un anonimo pensionato. Titania, sotto l’effetto dell’incantesimo, si offrirà sì a un amplesso animalesco, non con Bottom trasformato in asino, ma col toro di Minosse, con cui però metterà su famiglia.
La fauna umana che li circonda non sembra avere migliori prospettive: i quattro giovani amanti sono in realtà due mature coppie borghesi vacue, instabili, distratte. Il turbine delle attrazioni incrociate non li sposta più di tanto dalle loro condizioni iniziali: Helen è una svitata ex-artista di circo, Georg, il marito, la pianta bruscamente in asso perché si accorge di non poter stare con una «fanatica di destra». Wolf, il suo amico, è un nostalgico nazista, Helma una moglie assuefatta all’indifferenza: resistono insieme solo in quanto guardano sempre entrambi dalla stessa parte: se i loro sguardi si incontrassero – dice lei in un doloroso monologo – fuggirebbero all’istante. «Ci lasciamo in pace in modo estremo». È questa assoluta mancanza di interesse reciproco il requisito indispensabile per una possibile convivenza.
Ma la figura che meglio riflette questa livida divaricazione tra l’universo shakespeariano e la realtà attuale è quella di Cyprian, lo scultore che ha rinunciato alle sue ambizioni artistiche per mettersi a produrre, su richiesta di Oberon, delle mostruose statuette che vengono vendute come amuleti alla moda. È lui che svolge il ruolo dell’esecutore di magie che sarebbe di Puck, sono le sue piccole creazioni che, appese al collo, scatenano i sensi di chi le porta, spingono Titania ad accoppiarsi col toro ed Helma a tentare di rendersi seducente agli occhi del marito e dell’amico. Anche la sorte di Cyprian è indicativa: come Pasolini, finisce barbaramente trucidato e rapinato dal ragazzo di colore col quale aspira invano ad avere una relazione.
Der Park non è un testo né facile, né appagante. Di sicuro non è un capolavoro. È annodato, stridente, intenzionalmente sgradevole. Il suo fascino principale consiste proprio nel modo in cui procede per accumulo, assemblando quasi disordinatamente le metafore più diverse, non sempre illuminanti. È inutile cercarvi dei significati precisi: alla fine è proprio questo proliferare di segni, di comportamenti, di situazioni, di sentimenti, di sensazioni a trasmettere gli stati d’animo previsti dall’autore. Stento a vedervi, sinceramente, le virtù profetiche vantate dal regista. Ma è interessante come modello di quella forma compositiva anti-drammatica, o post-drammatica, di cui Botho Strauss è stato un precursore, e che in seguito si è ampiamente diffusa.
Mi sembra che il succo di quest’acre destrutturazione narrativa stia soprattutto in una personale modalità di scrittura, una scrittura all’apparenza piuttosto scialba, faticosa alla lettura, che tuttavia passando alla ribalta si rivela assai più funzionale. Gioca anch’essa sulla polifonia, sulle volute dissonanze: mescola quasi alla rinfusa degli improvvisi slanci poetici, presenti soprattutto nell’eloquio di Oberon e Titania, con dei residui di parlato quotidiano, degli accenti caricaturali con degli umori vagamente demoniaci, delle lampanti banalità con degli squarci amaramente introspettivi. Roberto Menin, che ne ha curato la traduzione, deve avere trovato molte difficoltà, e non so fino a che punto le abbia risolte tutte.
La regia di Stein, che è di altissima qualità, cerca di dare un impasto il più possibile unitario a questa materia debordante: mantiene accuratamente l’impronta degli anni Ottanta, a cui il testo continua intimamente a rimandare, resta legato complessivamente a quello stile da affresco tedesco che ne caratterizzava il tratto originario, anche al di là di certe specifiche trovate, come il recinto da animali dipinto coi colori della Germania e l’inno nazionale che risuona. Il regista si prodiga per chiarire e penetrare anche le minime sfumature del copione, con uno scrupolo persino eccessivo: qualche piccolo taglio qua e là, sulle quattro ore e mezza complessive di durata, non avrebbe sicuramente compromesso la piena percezione dei suoi contenuti.
Lo spettacolo ha delle immagini bellissime, la donna-albero, il sosia bambino che si sostituisce all’improvviso al suo equivalente adulto, Titania in abiti da signora d’altri tempi catturata con una rete come una belva nella giungla: la visione di lei distesa nell’erba in una pozza di sangue dopo essere stata posseduta dal toro è di una violenza sconquassante. Ma a dare ritmo all’azione sono soprattutto i continui cambi di scena effettuati a vista grazie a piccole installazioni mobili – alberi in vaso, cespugli, spaccati di casette, un tendone da circo, l’atelier dell’artista che spunta a sorpresa sotto un verde pendio – creando delle ambientazioni simboliche, provvisorie, con fini quasi puramente dimostrativi.
È impeccabile, come sempre, la sua direzione degli attori, fra i quali spicca la perentoria Titania di Maddalena Crippa, bravissima nel passare dalla febbrile esaltazione a un distacco brechtiano, evidenziato specialmente nella scena in cui cala dall’alto affacciata a un balconcino metallico, secondo la tradizionale iconografia delle tre divinità dell’Anima buona di Sezuan. Ottime anche le due coppie che non si perdono e quindi probabilmente non si ritrovano, il lucido Graziano Piazza e Pia Lanciotti, una Helen inquieta e nevrotica, Silvia Pernarella, che si produce in uno struggente monologo da moglie rassegnata, e Gianluigi Fogacci. Da ricordare inoltre l’esuberante Cyprian di Mauro Avogadro, così come l’Oberon svagato e sonnolento di Paolo Graziosi.
Visto al Teatro Argentina di Roma. Repliche fino al 31 maggio 2015
Der Park
di Botho Strauss
traduzione: Roberto Menin
regia: Peter Stein
scene: Ferdinand Woegerbauer
costumi: Anna Maria Heinreich
lighting designer: Joachim Barth
musiche originali: Massimiliano Gagliardi
con: Pia Lanciotti, Graziano Piazza, Silvia Pernarella, Gianluigi Fogacci, Maddalena Crippa, Paolo Graziosi, Fabio Sartor, Andrea Nicolini, Mauro Avogadro, Martin Chishimba, Arianna Di Stefano, Laurence Mazzoni, Michele De Paola, Daniele Santisi, Alessandro Averone, Romeo Diana/Flavio Scannella, Carlo Bellamio
La preziosa recensione di Renato Palazzi è quasi più interessante dello spettacolo stesso, tutto sommato dimenticabile nella sua schematicità tetragona tipicamente teutonia, a mio parere di memorabile in scena c’è solo Maddalena Crippa.