Sipario

Dentro la Riforma. Deflorian-Tagliarini: “Principio di realtà e questioni di principio”

Daria Deflorian e Antonio Tagliarini sogno gli ospiti di questa nuova tappa di valutazione critica del Decreto di riforma dello spettacolo dal vivo, illustrato nelle precedenti puntate da Renato Palazzi e commentato finora da Elio De Capitani, Marco Martinelli e Gigi CristoforettiPuntata 5


Partiamo dalla realtà. Siamo un duo artistico in lenta ma costante ascesa. Siamo passati dall’autoproduzione (grazie al fondo Imaie) al sostegno (ztl-pro) al contributo/coproduzione (Armunia) alla coproduzione (Romaeuropa e Teatro di Roma) con una progressione da manuale. Mai abbiamo commisurato la quantità di contributo alla quantità di lavoro e con nostra somma fortuna non lo hanno nemmeno fatto i nostri collaboratori. Questa progressione produttiva dà energia, consolida, permette concentrazione. Fa uscire dal lavoro nero in cui tutto il teatro indipendente è costretto a stare non pagando(si) i contributi per i lunghi periodi di indagine e di prove. Coronamento di questo percorso la proposta di una produzione “vera” (vera?) con un novello teatro nazionale. Condizioni: diventare “nucleo artistico”, rientrare nei parametri lavorativi. Date sul territorio (o all’estero) per rientrare nel compito “territoriale” dei Nazionali. Non poter continuare un rapporto produttivo con un festival (nel nostro caso Romaeuropa) perché non previsto dalla legge. Si trattava di cedere, ci è sembrato di capire, non solo la proprietà dell’opera ma un senso di identità come compagnia. In cambio di cosa? Certo non di una grande quantità di denaro, siamo in anni di crisi. Un po’ di grandeur. Probabile. Possibile, forse anche non evitabile. Siamo ancora considerati un teatro minore che deve agghindarsi per entrare nel salotto buono.

Non è stato per noi difficile decidere di rispondere: no. Questo perché (in ordine sparso):

1. A noi piace replicare i nostri spettacoli. Ancora oggi portiamo in giro Rewind del 2008, Reality e cose del 2012 e del 2011 e così via. Mejerchol’d diceva in un suo scritto che uno spettacolo comincia ad essere compiuto verso la centesima replica. Memorie universitarie, leggendarie, forse paradossi. Ma anche orizzonti.

2. Ci abbiamo messo anni a trovare in questa società liquida una coesione se non una identità. E adesso ci vengono a dire che le compagnie private non possono dialogare coi Teatri Nazionali? Perché mai? Siamo noi il teatro di questa nazione.

3. Non sempre negli ultimi anni il rapporto produttivo con gli ex stabili è stata un’esperienza fortunata per alcuni nostri colleghi e amici. Non si tratta di demonizzare questa possibilità, ma è anche indispensabile notare che molto spesso all’interno di questo rapporto l’artista viene condizionato nei tempi, nelle forme comunicative quando non nelle scelte artistiche.

4. Ci hanno consigliato di avere un doppio passo: una produzione con un teatro nazionale e una produzione indipendente in modo da non perdere nulla. Ma a perderci poi non è la qualità del lavoro? O della nostra vita?

Ci consideriamo fortunati. Anche se non faremo la prossima produzione con il Teatro di Roma, il teatro ha accolto un nostro progetto triennale legato al tema del paesaggio urbano che non comporta la produzione di spettacoli, ma laboratori e azioni performative all’aperto. E nel 2017 ci confronteremo con un testo non nostro di cui faremo la regia. Dire no ad una produzione non ha voluto dire no a un importante dialogo con il teatro della nostra città.

Questioni di principio
Noi ci troviamo in un momento positivo. Ma se non avessimo la prospettiva di vendere i nostri lavori all’estero per la prossima stagione ancora non potremmo considerare quello che facciamo un lavoro retribuito (non contiamo su alcun tipo di finanziamento statale).
Il 2015/2016 si preannuncia desolante per chi è fuori dai giochi. Attorno a noi sentiamo colleghi confusi, demoralizzati, che hanno la certezza di non vendere quello che con fatica stanno creando.

Una legge sul teatro non poteva certo risolvere le cose in un Paese così fortemente in crisi come l’Italia. Ma aveva quanto meno il dovere di non peggiorarle. Non doveva riconfermare l’impressione di profonda corruzione delle istituzioni culturali del nostro paese. Tre, quattro teatri nazionali erano più che sufficienti.  Non doveva aumentare il distacco tra l’humus creativo (che non nasce nei teatri nazionali ma lì semmai mostra la sua maturazione) e una dimensione economica senza la quale NON si può andare avanti. Non doveva svendere l’importantissima questione della formazione, diventata una via di uscita per raggiungere il numero di borderò necessari per il Ministero. Non doveva permettere a una questione sacrosanta come quella della distensione dei progetti nel tempo di trasformarsi nella corsa finta e vuota dei progetti triennali.

Fine Puntata 5 (continua)
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