Solo chi ha indagato le difficoltà dell’emigrazione e il marchio della diversità come Mario Perrotta poteva restituire ai luoghi in cui visse il genio folle e affamato di vita di Antonio “Toni” Ligabue – Maria Grazia Gregori
Bassa continua di giorno e di notte per ripercorrere i “passi perduti” di Antonio Ligabue grandissimo pittore, uomo solo, detto semplicemente Toni e ancora più semplicemente “il matto”. Ligabue e il Po, maestoso anche all’interno dei suoi boschi lussureggianti, nelle sue pozze d’acqua simili a laghi fantastici. Ligabue che conosce e imita le voci degli animali, anzi che parla con loro e che, quando non li conosce, li inventa. Ligabue che ama soprattutto il leopardo e l’aquila alla quale si crede somigliante per via della sua faccia estremamente irregolare.
Per scoprire il suo mondo costellato di bestie “inventate” e feroci ma anche per vedere da vicino i luoghi in cui la sua pittura letteralmente “scoppiò”, per almeno intuire la solitudine della sua vita di emarginato, eccoci a Gualtieri dove visse a lungo e morì, a Guastalla che spesso frequentava, sulle rive del Po dove viveva e si nascondeva, al manicomio di Reggio Emilia, dove immaginiamo sia stato curato il suo galoppante bipolarismo proprio come capitò ad Artaud con l’elettrochoc, guidati dall’affascinante progetto di Mario Perrotta Bassa continua -Toni sul Po sostenuto, fra gli altri, dalla Regione Emilia Romagna, dai comuni di Gualtieri, Guastalla, Reggio Emilia, da Emilia Romagna Teatro, da I Teatri di Reggio Emilia, dalla Fondazione Cariplo e da una ragnatela di grandi e piccole realtà regionali. Un progetto contro l’esclusione –almeno a me così pare – che solo chi ha indagato in spettacoli importanti le difficoltà dell’emigrazione e il marchio della diversità come Mario Perrotta, può avere la sensibilità di restituire a un pubblico foltissimo che per quattro giorni ha affollato, al chiuso e all’aperto, il grande viaggio intorno alla vita, al cuore, al dolore di Toni Ligabue.
Ma lui, Toni, chi era? Barbone che si cucina i gatti, pazzo che cerca di trovare dei legami con le persone alle quali spesso supplica un bès, un bacio, ragazzo abbandonato in Svizzera dalla madre Elisabetta che poi lo riprenderà quando si sposerà con tale Laccabue di Gualtieri che lo riconoscerà (da qui la scelta del nome d’arte di Ligabue), dato in affido a una coppia di svizzeri tedeschi che poi lo abbandonerà al primo manifestarsi della sua malattia, Ligabue, estradato in Italia e non sentendosi affatto italiano perché parlava tedesco, ritornato di nuovo in Svizzera per poi essere “accompagnato” definitivamente in Italia, diventato famoso verso la metà degli anni Cinquanta (morirà nel 1965 a 66 anni), può addirittura permettersi una macchina con un autista , ma per quel paese, dove peraltro è sepolto, in quel mondo di contadini, di estati assolate, di balere, resterà sempre e solamente il Toni, il pazzo.
Tutto questo e molto altro ci racconta il Progetto di Perrotta che ha coinvolto circa duecento persone, che si suddivide in tre parti e in tre luoghi – Gualtieri e Guastalla, il padiglione Lombroso dell’ex manicomio di Reggio Emilia, le sponde del Po nella sera – inseguendo Ligabue per itinerari costellati di suoni, di corpi, di voci, di musiche, condotti da pullman trasformati in luogo di racconto di tutto ciò che sta attorno alla vita dell’artista: dalla prima guerra mondiale al fascismo con la voce di sottofondo di Mussolini, alla seconda guerra mondiale e all’armistizio, al dopoguerra, mentre cantano le Sorelle Lescano e si suona e si balla “Canto quel motivetto che mi piace tanto”, si ricorda l’alluvione del novembre del 1951, insieme all’avanspettacolo che, nei primi cinema, introduceva la proiezione dei film qui ricordata nel montaggio dei baci più famosi del cinema a ricordo del grande bisogno di vicinanza, di amore, di tenerezza che aveva il Toni pronto a tutto pur di avere un bès.
In un avvicendarsi di dentro e fuori, di musica, parole, di teatro- danza, di teatri come quello bellissimo di Gualtieri del cui restauro si occupa un gruppo di giovani volontari, architetti, ingegneri, designer, per poi ogni volta concludersi con il funerale del Toni all’aperto nella grande, bellissima piazza di Gualtieri con la lunga invettiva che Perrotta seduto sulla sua bara (l’unica apparizione che il regista drammaturgo si concede) mentre la banda accompagna il suo tragitto verso il cimitero contro l’ignoranza degli abitanti del luogo, gente che ha usato i quadri da lui regalati o acquistati magari con 4 minestre e bruciati per fare il fuoco, quei “bastardi” che ora, nel momento in cui la sua fama corre per il mondo, si mangerebbero le mani per la rabbia.
Diversi sono gli attori che danno voce e corpo a Ligabue. Nel manicomio saranno addirittura tre che – in tre celle di contenzione diverse, per tre gruppi diversi – racconteranno le sue pene, mentre a Guastalla ci sarà Lorenzo Ansaloni e sul Po il bravissimo Marco Cavalcoli. Intorno a loro attori, danzatori, cantanti, musicisti impegnati fino allo spasimo che contagiano con il loro entusiasmo gli spettatori. Come diversi e di valore teatrale diverso sono i momenti del racconto: mi ha colpito, per esempio, l’inizio della visita al manicomio con quei “pazzi” che ci venivano incontro provocandoci con i loro tic, i loro gesti scomposti, donne e uomini arrampicati alle sbarre delle finestre come animali e mi ha catturato la lunga, faticosa camminata tra fango e arbusti e un po’ di pioggia, alla golena del Po, le balere piene di ragazze di vita, i casini, le parole di Cavalcoli-Ligabue seduto su di una specie di zattera in mezzo all’acqua a raccontarci la sua vita e una violinista, su un’altra zattera, che suona mentre davanti a lei una barca passa guidata da un rematore, Ligabue ripete ossessivamente il suo racconto e nel cielo, finalmente, brilla la luna. Ed è qui che lo spettacolo acquista il suo senso più vero.
Foto di Luigi Burroni