Pietro Babina, alle prese con uno dei capolavori di Bernhard, firma uno spettacolo in bilico, scegliendo la via di un’ipotetica sospensione che lascia – senza avere il coraggio di girarla fino in fondo – la chiave nella toppa di questa claustrofobica vicenda familiare, rito funereo di ossessiva irrealtà – Maria Grazia Gregori
L’occasione di vedere rappresentato un testo di Thomas Bernhard può avere per lo spettatore più di un interesse. Il primo, ovviamente, riguarda la qualità della sua scrittura , il suo essere un autore mai scontato, dalla cultura finissima, che si ritrova in testi dove l’ironia urticante e l’inquietudine, l’eleganza spesso ricercata della forma accompagnata a una diffusa maniacalità, prendono spesso in contropiede il lettore (e il pubblico). Il secondo ha a che fare con il modo in cui viene rappresentato e in questo caso c’è l’ovvia curiosità di scoprire come Pietro Babina, una vita nel teatro di ricerca, abbia realizzato Ritter Dene Voss che può contare anche su di un’altra curiosità riguardante il titolo che a molti potrebbe apparire misterioso.
In realtà qui l’autore assembla i cognomi di tre fra gli attori più celebri delle scena austriaca – Ilse Ritter, Kristen Dene, Gert Voss – (cosa non nuova per lui che aveva già intitolato un testo folgorante al grande Minetti) non tanto perché furono proprio loro a interpretarlo diretti da Claus Peymann nella prima rappresentazione al Festival di Salisburgo nel 1986, tant’è che non racconta di loro. Parla del teatro, questo sì, come spesso succede in Thomas Bernhard, un teatro come realtà parallela, specchio deformato (e forse per questo più vero) della vita quotidiana.
Lo spettacolo andato in scena all’Arena del Sole e attualmente presentato al Teatro delle Passioni di Modena si recita in una scena dove non ci sono precisi richiami all’austriaticità dei personaggi ma domina l’astrazione e al posto dei mobili dove stanno riposte le suppellettili – i famosi piatti e bicchieri di cui tanto si parla -, ci sono due imponenti catafalchi di legno, uno dipinto di verde chiaro e uno rosa fucsia – come se il regista volesse già smitizzare fin dall’inizio qualsiasi realismo – e che alla fine riveleranno sotto la furia dei colpi di Ludwig (uno dei tre protagonisti), sull’onda dell’Eroica di Beethoven, il loro contenuto di ossa umane, a significare che la tanto idolatrata (e respinta) forma, la tanto idolatrata “classe” in realtà è cosa morta, inutile, finita. Forse le due sorelle Ritter e Dene (una vestita di azzurro e l’altra di rosa) e il fratello Ludwig sono rimasti legati a un passato ormai diventato polvere, del tutto obsoleto?
Questa casa non casa è il luogo in cui si ritrovano i tre rampolli di una famiglia di ricchissimi industriali, i Worringer, ed è del resto grazie alle larghe elargizioni di denaro al teatro del padre morto che le due donne recitano di tanto in tanto senza lasciare peraltro alcun segno. Il fratello, al contrario, sta rinchiuso in un manicomio a Steinhof da dove le sorelle lo riportano a casa per passare insieme alcuni giorni di vacanza. Ludwig (Leonardo Capuano), è ossessionato non sappiamo se più dalle sue due sorelle o da un tal dottor Frege al quale dovrebbe rapportarsi. È un dilettante della filosofia – discetta di Schopenhauer, straparla “la filosofia – dice – è una locanda accogliente che propina cibi e bevande avvelenate” e non va certamente meglio per la casa, “una tomba squisita dove si servono krapfen”- ma un professionista della follia, ossessionato dalla musica. Ma la casa dove i tre vivono è proprio un luogo dei passi perduti dove ognuno è perso in se stesso: Ritter (Francesca Mazza) scruta continuamente dentro un caleidoscopio; Dene (Renata Palminiello) gira per la casa a tentoni con gli occhi bendati per impadronirsi del personaggio di una cieca che dovrà interpretare; Ludwig ascolta compulsivamente la musica. Tutti e tre sono uniti l’uno all’altro per tormento, da manie all’apparenza innocue come “le mutande di cotone di montagna” o i meravigliosi Krapfen.
Uno spettacolo in bilico – alle volte troppo aperto e alle volte troppo chiuso -, come se Babina avesse scelto la via di un’ipotetica sospensione e questo influisce anche sull’interpretazione degli attori, lasciando – senza avere il coraggio di girarla fino in fondo – la chiave nella toppa di questa claustrofobica vicenda familiare quasi fosse un infantile girotondo incestuoso, un rito funereo, un’ossessiva irrealtà di disperata astrattezza che la musica lugubremente sottolinea.
Visto al Teatro delle Passioni di Modena. Repliche fino al 17 gennaio 2016