Lorenzo Loris abbandona con una regia sensibile e minimalista la ricerca linguistica per concentrarsi in questo testo giovanile di Dostoevskij sul delicato equilibrio dei sentimenti di due impossibili amanti – Renato Palazzi
Nel rappresentare Le notti bianche, Lorenzo Loris non compie soltanto un vertiginoso spostamento delle sue frontiere culturali, passando da Pasolini, Gadda, Testori a Dostoevskij. In questa nuova proposta il regista adotta, in un certo senso, un diverso sguardo teatrale, esce da un’area sostanzialmente incentrata sulla ricerca linguistica per comporre una sorta di pura partitura di sentimenti, una delicata trama introspettiva affrontata con una sensibilità quasi minimalista. Non si coglie, nello spettacolo, una particolare attenzione agli apparati della messinscena, la necessità di trovare un’elaborata cifra stilistica: Loris, qui, va dritto allo scopo, che è quello di porre al centro della ribalta i più tenui soprassalti emotivi dei due protagonisti, inquadrandoli come attraverso la lente di un enorme microscopio.
Già oggetto di precedenti adattamenti teatrali e cinematografici – si ricorda, in special modo, il film di Visconti con Mastroianni e Maria Schell, e uno spettacolo con Franco Enriquez e Valeria Moriconi – Le notti bianche è un’opera giovanile di Dostoevskij, un romanzo breve incentrato sull’incontro fra due solitudini. L’andamento della vicenda è apparentemente semplice: nell’arco di quattro notti un sognatore perso nelle proprie sterili fantasie e una ragazza che aspetta invano da un anno il ritorno dell’amato si conoscono, si confidano, si svelano l’uno all’altra. Lui si innamora, lei a un certo punto pare lì lì per accettare la sua corte. Per un attimo crede di contraccambiarlo. Poi riappare l’uomo tanto atteso, e fatalmente quel nuovo, possibile legame svanisce sul nascere.
Di fatto però, fra il suo inizio e la sua fine si sviluppa una fitta rete di illusioni, di auto-inganni, di dolori cocenti e di labili consolazioni. Tra i due si crea soprattutto un sottile gioco di incastri psicologici: entrambi, per ragioni diverse, sono perfettamente consapevoli che quelle loro ore notturne passate insieme non li porteranno a nulla, ma entrambi, per ragioni diverse, hanno bisogno di convincersi che fra loro possa davvero scoccare la passione, che sia loro consentito di immaginare un futuro comune. E tutto ciò, in quei lunghi crepuscoli nordici di San Pietroburgo, risulta terribilmente chiaro, e al tempo stesso sfumato, come fermato in una dimensione sospesa.
Loris illumina questo stratificarsi di sensazioni con una specie di lucida dolcezza: le enuclea, le fa come vivere di vita propria, ne fa l’asse portante dell’azione. Sembra scavare in quel groviglio per riportarle in superficie a una a una, tratteggiando con lo stesso affetto e con la stessa comprensione tanto l’involontaria carnefice quanto la vittima predestinata, che d’altronde si guarda bene dal recriminare o dal coltivare aspirazioni di rivalsa: «che tu sia benedetta per l’attimo di beatitudine e di felicità che hai donato ad un altro cuore, solo e riconoscente! – sono, appunto, le sue ultime parole, a conclusione del testo – Dio mio! Un intero attimo di beatitudine! È forse poco, sia pure per tutta la vita di un uomo?
A questi palpitanti stati d’animo il regista sovrappone un’ulteriore sfera di emozioni, affidando il ruolo del sognatore-narratore non a un giovane, come l’autore lo immagina, ma a un attore già avanti con gli anni, che racconta i fatti come se stesse rievocando dei ricordi lontani, aggiungendo al feroce disincanto che essi causano un sovrappiù di strazio, quello legato all’invecchiamento, al rimpianto del tempo passato e all’incapacità di affrancarsene. Questa scelta aumenta, da un lato, la gamma delle risonanze interiori suscitate da quegli appuntamenti notturni, ma dall’altro toglie anche qualcosa alla loro naturalezza, al loro spontaneo divenire, come se tutta la sorte del rapporto fra i due fosse già scritta, già scontata e immutabile.
L’idea che il narratore sia ormai anziano non è di per sé fuori luogo, e può servire a depurare l’intreccio di qualche soverchia scoria romantica. Ma forse la sua figura andrebbe scissa, forse egli dovrebbe solo dare voce al se stesso che era, un se stesso che sia invece materialmente presente accanto alla ragazza. Così com’è, crea qualche scompenso interpretativo. Se dunque l’esordiente Camilla Pistorello è parsa brava ed efficace, in grado di suggerire la freschezza mista a quel tanto di inconscia ambiguità che caratterizza Nasten’ka, meno convincente è risultato Massimo Loreto, che sembrava ancora incerto, in difficoltà nel trovare la giusta misura del personaggio. Ma comunque, in quei panni di ex-giovane innamorato, si stenta a immaginarlo: lui è sempre stato come è ora, credo che neppure da ragazzo sembrasse un ragazzo.
Visto al Teatro Out Off di Milano. Fino al 14 febbraio 2016
Le notti bianche
da Fedor Dostoevskij
adattamento e regia: Lorenzo Loris
scena: Daniela Gardinazzi
costumi: Nicoletta Ceccolini
luci: Alessandro Tinelli
musiche originali per la balalaika: Simone Spreafico
elaborazioni video: Lorenzo Fassina
con: Massimo Loreto, Camilla Pistorello e con Matteo Principi
sede: Milano, Teatro Out Off, fino al 14 febbraio
Ho assistito allo spettacolo, mi hanno colpito le atmosfere e i colori crepuscolari che mi hanno regalato forte emozioni. Spezzerei, però, una lancia a favore della scelta di Massimo Loreto perché lo trovo molto credibile: un sognatore l’ho sempre immaginato con questa fisicità. Ho trovato, a suo tempo, un po’ meno “adatto” che un uomo bello e affascinante come Mastroianni potesse recitare che tre notti così gli avrebbero condizionato tutta l’esistenza, con tutte le occasioni che sicuramente avrà avuto! Con stima, Doriana