Appunti sull’edizione della Biennale Danza 2016 appena conclusa. Tra calli e campi, molta danza per tutti e un’idea forte, quella di Sieni. Che celebra la grande danza femminile con il Leone Maguy – Silvia Poletti
È finita domenica scorsa l’invasione gentile dei danzatori di varie età e formazioni, professioni e confessioni che Virgilio Sieni ha riunito ancora una volta (l’ultima? Chissà) a Venezia per la Biennale Danza 2016. Ora la magnifica città tornerà preda solenne e inerme delle masse informi, accaldate, macilente, di turisti che spalmano di bruttezza le calli e i campi lagunari. E si acuirà ancora di più il contrasto forte tra l’assolutezza del bello celebrato in questa città unica e l’esistenza – qui e ora – di noi, anime erranti, sperse e disorientate, imbrigliate in riti di massa che riempiono gli occhi di immagini effimere.
A noi restano alcune valutazioni. Se infatti la visione di Sieni – sviluppata in quattro anni di radicamento e intersecamento dei molti momenti coreografici disseminati in ogni edizione nel tessuto cittadino – è risultata importante proprio per aver proposto la centralità del corpo danzante nello spazio (quello urbano, reale e quello teatrale, ‘fittizio’) e per aver dispiegato l’evento danzante a occhi ignari, con la serietà intensa di una liturgia popolare, non si sa quanto davvero questa fascinosa e meticolosa mappatura coreutica stratificata per età, condizioni, valori, efficacia porterà in nuovi accoliti al genere.
Certo va dato atto all’autore fiorentino di aver mantenuto dritta la barra e aver portato avanti la sua politica artistica di una danza sempre più democratizzata senza concessioni di alcun genere e anzi, ribadendo nel corso delle edizioni le sue predilezioni artistiche e le sue affinità intellettuali ed estetiche con alcuni specifici autori, tra suoi coetanei ed emergenti, con un’attenzione non superficiale agli italiani. Alcune cose sono state più convincenti di altre. L’individuazione dei nomi cui è andato il Leone d’Oro alla carriera, per esempio, francamente ineccepibili e per ben due volte, nel 2015 e quest’anno, assegnato a due grandi donne della danza contemporanea, Anna Therese de Keersmaeker e Maguy Marin (l’altro è stato Steve Paxton nel 2014): la prima in qualche modo affine alla visione estetica di Sieni, l’altra invece antitetica, cosa che ha reso il premio ancor più apprezzato. Che Maguy sia una ‘leonessa’ ancora in lotta e abbia fatto della danza un linguaggio non solo dal segno estetico riconoscibilissimo e personale, ma magnificamente capace di sintetizzare una necessità espressiva costantemente nutrita dalla costatazione della realtà (cui Maguy non si sottrae mai, con vigore civile) lo si è visto anche recentemente con BIT , ultimo tassello di una carriera trentennale. La cerimonia di premiazione e l’ohimé confusa conversazione che ha fatto seguito non hanno dato veramente il senso dell’importanza di questa autrice: ma per chi non la conosce è stato sufficiente il duetto di Eden, ancora potente, desolato e struggente di forza poetica per capire la visionarietà e il tratto personalissimo di questa artista davvero unica.
Un’altra donna ha segnato come un solido pilastro la struttura della programmazione 2016 della Biennale Danza: Trisha Brown, il cui genio è stato celebrato, giustamente, con l’ultima apparizione della sua compagnia. Leone ‘morale’ anche Trisha, ammalata e ormai lontana dalla scena: forse alle regole dell’apparire (o meglio dire presenziare), bisognerebbe per una volta sostituire quelle dell’essere e assegnare a maestri dell’arte di così fondante importanza un riconoscimento prestigioso senza limiti e senza preclusioni. Ci pensino, in Biennale.
Tra le varie sezioni del festival che abbiamo seguito nel primo week end, un’altra donna ha dato un segno forte, esteticamente raffinato e coreograficamente incisivo: l’angloindiana Shobana Jeyasingh, pioniera di quella danza globalizzata nata dalla fusione delle sue radici culturali e artistiche (la barathanatyam di Madras insieme alla modern dance britannica). Il suo Outlander, evento speciale incasellato nel Cenacolo Palladiano della Fondazione Cini e sovrastato dalla copia, comunque mozzafiato, della tela del Veronese Le Nozze di Cana muove in sequenza tre strepitosi danzatori lungo la passerella che solca la sala. Un percorso a ritroso dal linguaggio moderno puro alla contaminazione fino a una ripensata danza classica indiana su musica di Scanner: energia, nitore, carisma teatrale, concentrazione. I richiami – si legge dalle note – alla pittura del Veronese, di cui i tre soli evocano struttura, colori e infine la figura centrale del Cristo sono suggestivi, ma quasi pleonastici, tanto sono forti della loro pura bellezza danzante i tre.
Così come è stata convincente la forza di Daniele Ninarello, un performer raffinato nel tratteggio dei gesti e nella calibrature dell’energia che in Kudoku riesce a far dialogare con il vagare sonoro del sax e degli strumenti elettronici dell’improvvisatore Dan Kinzelman: un crescendo di dinamica, forza, impulsi e tensione che catalizza lo sguardo senza distrarlo dagli ori pomposi della Sale Apollinee della Fenice- a conferma che sta emergendo una nuova generazione di artisti italiani con un potenziale da sostenere.
E davvero dovremmo in questo imparare – anche solo in parte – dai nostri cugini francesi, la cui opera di sostegno della coreografia contemporanea come ben sappiamo è strategicamente potenziata anno dopo anno, con la promozione di artisti talvolta sopravvalutati. Se è comprensibile l’incoraggiamento alla francoalgerina Naceza Belaza che con la sua danza severa e ricca di suggestioni mistiche che rimandano alle radici ataviche del movimento proprie della sua cultura impone severamente al pubblico il roteare eterno ed estatico delle sue compagne (La Traversée e Sur le Fil), lo è meno in fondo quello all’israeliano adottato dal Festival di Montpellier Emanuel Gat, che in Sunny – dieci ottimi danzatori e un musicista live in stretta connessione – continua a ripetere senza vero sviluppo né linguistico né drammaturgico né tanto meno teatrale un format compositivo fatto di alternanza di assoli e sequenze di gruppi scultorei, che alla fine non porta da nessuna parte. Non di meno questi sono nomi che popolano molti dei nostri festival e stagioni teatrali, senza portare un significativo contributo all’arte.
Insomma, per dirla con Shakespeare, con Sieni tutta Venezia è stata davvero un palcoscenico e una ‘palestra’, soprattutto per i frequentatori dei College formativi, forse la sezione meno convincente – negli esiti decisamente variegati – di tutta la visione dell’autore fiorentino. Chiunque assumerà la direzione della Biennale Danza dovrà probabilmente rivederne l’impostazione e le finalità.
In apertura Outlander di Shobana Jeyashing al Cenacolo Palladiano, Fondazione Cini, Venezia