È una materia incandescente come il terrorismo dei “foreign fighters” quella che ispira la pièce scritta da Francesca Garolla, impegnata a riflettere, senza condurre a conclusioni definitive, su una libertà “feroce, che non si fa trattenere” – Renato Palazzi
Francesca Garolla (foto) è una giovane autrice che, grazie a indiscutibili doti di tenacia e dedizione, nonché ad alcuni preziosi legami internazionali stabiliti con la scena francese e in particolare col Festival d’Avignone, sta conquistandosi uno spazio di attenzione nel panorama dell’odierna drammaturgia italiana e non solo italiana. Non a caso il suo nuovo spettacolo, Tu es libre, ha debuttato al FIT Festival di Lugano e il suo nome figura ora fra i dieci selezionati per il progetto di scambi europei Fabulamundi. Non sono convinto, francamente, che la Garolla fosse dotata di un’innata vocazione alla scrittura. Credo però che passo dopo passo, affrontando prove sempre più impegnative con coerenza e coraggio, stia maturando una propria autonoma personalità creativa.
Di coraggio, diciamolo, gliene occorreva molto per buttarsi in una materia incandescente come quella che ispira Tu es libre, in cui si immagina l’enigmatica vicenda di una studentessa francese – dal nome omerico di Haner – che, senza spiegazioni o motivazioni apparenti, all’improvviso fugge in Siria per unirsi ai fondamentalisti islamici. Il tema, al centro di una rovente attualità, non è dei più semplici coi quali misurarsi, anzi rischia di trascinarti su terreni perigliosi. E lei, con scelta certamente non banale, lo tratta per giunta, almeno in gran parte dal punto di vista della ragazza – che forse, tornata in patria, compie addirittura un attentato – non censurando e non prendendo in alcun modo le distanze, ma cercando con cautela di far luce sulle impenetrabili pulsioni di un gesto estremo, pur guardandosi bene dal fornirgli giustificazioni.
Sul piano della mera comunicazione dei contenuti, vorrei dire che su questo testo è praticamente impossibile formulare un giudizio oggettivo, proprio perché tratta di ciò che resta e dovrà restare un mistero. Di quella conversione ci viene evocata, da parte di chi vi ha a vario titolo assistito, il progredire sospinto da una passione pura, quasi astratta, scevra però da fanatismo, ma il bisogno di trovarvi una propria verità viene lasciato alla sensibilità del pubblico del singolo spettatore, chiamato a fare i conti con se stesso. Per quanto mi riguarda, trovo molto positivo l’affermarsi di esperienze teatrali che – soprattutto su temi politici “caldi” – suscitino dubbi, pongano interrogativi sensa fornire risposte. Ma si tratta ovviamente di un teatro che divide, che spiazza, che richiede un approccio senza pregiudizi.
Formalmente, rispetto a una precedente lettura che ne avevo sentito in una fase ancora divenire, Tu es libre mi sembra notevolmente cresciuto: il suo andamento si è assestato, ha acquistato dei nuovi equilibri interni. Specialmente le testimonianze delle quattro figure più vicine alla ragazza, la madre, il padre, un fidanzato di origini siriane, e dunque guardato con sospetto, e una compagna di studi, e il loro interloquire con la stessa Haner, e persino con l’autrice – sempre presente alla ribalta con commenti e interventi di raccordo – contribuisca a creare una dialettica debitamente sospesa, frammenti di ricordi, di sentimenti, di impressioni che aiutano a comporre un quadro umano complesso, ma non possono condurre a conclusioni definitive che non trovino fondamento nell’accettazione e nel rispetto dell’integrità della persona.
Poi, ovviamente, la stesura del copione non manca di qualche caduta di tensione, di qualche vezzo letterario, di qualche eccesso di puntigliosità dimostrativa. Ogni tanto la Garolla si arrampica un po’ sulle parole. Ma i veri punti d’attrito sono d’altro tipo, sono un paio di concetti difficili da accettare, rispetto alla morale corrente: il primo è la presa d’atto, costantemente ribadita, che ci sia una guerra in corso, seppure riconociuta da una sola parte, e negata, sottaciuta, esclusa dai propri orizzonti dall’altra, una guerra per di più nella quale la protagonista è ostinatamente convinta che ci sia sempre e comunque una componente di «umanità», ovvero che essa appartenga pienamente e totalmente alla specie.
Il secondo, che è il paradosso vero della pièce della Garolla, quasi sul filo della provocazione intellettuale, è il fatto di ricondurre lo scarto di Haner, il suo bisogno di darsi a un’altra vita, ad un mero esercizio di assoluta libertà interiore, libertà di essere anche ciò che non si è, di fare ciò che non si farebbe, un principio etico di libertà fondante che può esssere spinto fino alla violenza, o altrimenti non è libertà vera. Non mi è facile, devo dire, inquadrare l’esigenza dell’autrice – a mio avviso formulata in modo un po’ tortuoso – di porre in relazione questa idea di libertà «feroce, che non si fa trattenere», con Andromaca e con gli altri eroi guerrieri dell’Iliade, il libro che corre sottotraccia rispetto all’intera pièce.
Quanto allo spettacolo, credo che la regia di Renzo Martinelli non potesse andare in altra direzione se non quella di una totale spoliazione, della rinuncia a ogni ipotesi di abbellimento rappresentativo, per puntare a una scarna costruzione verbale dove i personaggi, seduti su una panca contro la parete di fondo, avanzano a turno, parlano più o meno al microfono, esprimono frontalmente il proprio pensiero o le proprie sensazioni e poi tornano nella penombra, con le loro domande, coi loro smarrimenti, con la loro incapacità di darsi pace. L’incongrua presenza della compagna di studi è chiaramente non riuscita, ma questo, forse, già nel testo. La panca che si rovescia, le luci che si accendono in faccia alla platea spezzano il ritmo, creano dei piccoli contraccolpi emotivi, ma la trama è tutta mentale, e richiede solo di ragionarvi sopra o di rifiutarla.
Visto al Teatro i di Milano. Repliche fino all’11 dicembre 2017
Tu es libre
di Francesca Garolla
regia: Renzo Martinelli
con: Liliana Benini, Maria Caggianelli, Francesca Garella, Viola Graziosi, Alberto Malanchino, Alberto Onofrietti
Si potrebbe consigliare, a chi ha visto Tu es libre di Francesca Garolla al Teatro i, di recarsi a Palazzo Reale a vedere le opere di Nachtwey, presentate sotto il titolo Memoria, foto che ci presentano solo scene di guerra, di orrori conseguenti alla guerra e di esiti della guerra. Molti escono ‘scossi’ da un modo fotografico in cui ogni residuo di ‘finestra’ è tolto, e lo spettatore è immerso, insieme all’autore, nel contesto stesso della guerra.
Ora, Haner, la ragazza che abbandona il nostro amato occidente, per recarsi in Siria, nel suo riferimento all’Iliade non evoca il massacro della guerra e il suo fascino, ma la dedizione di chi vi si trova coinvolto in figura di eroe (d’accordo, se si vuole con la Vita activa della Arendt, capitolo terzo, paragrafo 31. La tradizionale sostituzione del fare con l’agire, che oggi diventa presentazione dell’ultimo libro, Le mie indipendenze (La nave di Teseo), di Kamel Daud, lo scrittore che, dopo aver rovesciato Lo straniero di Camus, ora ci ammonisce che ‘non sei libero perché te lo dicono, ma solo quando sei tu a dirlo a te stesso’, e ciò vale in Francia come in Algeria.
Non è stato facile, per i nostri partigiani resistenti, decidere di imbracciare il fucile. E’ la libertà che contraddistingue l’eroe, Ettore come Andromaca, come Patroclo e Achille, l’ eroe che non esita a rinunciare alla vita -in Haner esemplarmente non obbligato a tale rinuncia- pur di evitare di fruire di una pace che vive della guerra che combattono i soldati che se ne tornano, quando tornano, sovente massacrati o folli.
Non c’è, nel testo, nessuna esaltazione della guerra, c’è la prossimità della parola narrante dell’autore, in scena, al rifiuto di godere in pace di un mondo in guerra. E’ questo il rifiuto ciò che richiesto allo spettatore, che, in sua assenza, non può che essere spettatore del dramma che non va in scena, perché è il dramma è quello che egli medesimo contribuisce a fomentare con il suo stile di vita, a cui si assiste in scena, cinema o teatro, situazione a cui seguono un condiviso sospiro, e una cena.
Per questo l’autore, in scena, non sa la ragione per cui Haner è partita, desiderio di eroismo, stanchezza di una solitudine che la confina in un libro che la guarda da vicino più lei lo guarda da lontano; ma sa bene la ragione che l’hanno invitata a mettere in scena tale partenza, imitazione di una precipitazione nel sacrificio, quando la visione del mondo in guerra diventa insopportabile.