Bolzano Danza 2018 evidenzia con fermezza una tendenza della danza contemporanea. Che coinvolge anche le intime reazioni degli spettatori- Silvia Poletti
Straniamento. Se c’è una sottile, comune tendenza che sembra attraversare le varie forme coreografiche di oggi è quella di portare lo spettatore in un altrove percettivo. Non utopistico o idilliaco come nell’Ottocento ballettistico, ma come in quel caso ingannevole. Perché sottolinea quanto ci si creda parte di un tutto e invece si è sempre più soli: individui orgogliosamente unici per età, storie, fisicità. Ma anche perché forse ormai quasi del tutto impermeabili ( per difesa? Per afasia? Per delusione?) alle sollecitazioni emotive.
La vivace programmazione di Bolzano Danza 2018 – seguita nell’ultima sua settimana di spettacoli- sembra compattarsi proprio sotto questa idea: citando Elisa Guzzo, l’altrove qui ( e viceversa). Non è solo perché per seguire gli eventi ci si sposta dal canonico spazio teatrale ovunque in città e nei suoi fascinosi dintorni ( la sezione Outdoor è stata affidata quest’anno dal direttore Emanuele Masi alla visione e coordinamento di Michele Di Stefano, mentre l’anno prossimo toccherà a Rachid Ouramdane). Ma proprio perché coinvolge direttamente lo spettatore, che subisce la dolce violenza di salire e scendere per scale, attraversare saloni, affacciarsi alle terrazze di un palazzo, inoltrarsi dentro le volte di una cavernosa cantina, o addirittura restare impalato- piedi rigorosamente in prima posizione- sulla banchina della stazione mentre la gente/altra si precipita a prendere il proprio treno: il tutto per osservare ‘la danza’, che appunto avviene altrove e che si mantiene comunque in debito distacco, noi qui, loro lì. Perché c’è una distanza abissale -di percezione e di coinvolgimento emozionale tra noi e loro -nonostante ci vengano dati input via cuffia come in Veduta di Di Stefano o ci si premuri di istruirci al meglio sul da farsi col sussiego dei piccoli maestri ( come fa Marco d’Agostin in The End del collettivo Strasse). Quasi che l’aspetto ‘teorico’ e concettuale del progetto restasse una priorità imprescindibile per queste eterne traduzioni degli esperimenti di Robert Dunn e i suoi ai tempi della mitologica Judson Church.
Proprio Veduta è la briosa declinazione postmoderna di quanto fece la giovane Childs, quando scesa in strada chiese ai suoi compagni in aula di affacciarsi e osservarla danzare in mezzo al traffico, al suono di un transistor. Di Stefano invece ci cala apparentemente in un’atmosfera Mission Impossible, portandoci a immaginare corse folli e salite a perdifiato che ‘crediamo’ di vedere incarnate dai performer che si palesano nelle sale della cassa di Risparmio bolzanina, giù in piazza Walter o lassù in quella casina sul cocuzzolo di fronte a noi che osserviamo dalla terrazza del palazzo – e invece l’audio ci rivela che il fuggitivo si trova a Marrakesh.
Alessandro Sciarroni vestito shabby chic ( le braghette e -i calzini bluette sono di Prada) continua a proporre la sua ostinata ( in senso musicale anche!) ricerca sul ‘girare’ che è sinonimo di ‘rivoluzione’: in effetti il suo Don’t be frightened of turning the page all’interno della stupenda Felsenkeller Lamburg a Vadena incentrato sulla variatio ritmica e dinamica del roteare su se stesso ( da sempre collegato all’estasi mistica) ne è ennesima declinazione cui però assistiamo -dai bordi della scena- impassibili, al più attratti dall’inevitabile ripetitività suscitata dall’andamento calibratissimo del performer appena ‘rotto’ da un braccio che si solleva, da un sorriso estatico, da un gemito che scarica l’energia.
Sperimentiamo insomma la cosa/danza (con le sue variabili), ma non sentiamo. Lo attesta anche Boris Charmatz, teorizzando, alla partenza di 10000 gestures del suo Musée de la Danse visto in prima nazionale un postulato davvero concettoso: ogni suo interprete deve crearsi una partitura gestuale formata da 10.000 movenze che non devono mai essere ripetute. Un elogio all’effimera natura della danza -cui i diciassette in scena attingono spaziando tra tutti i vocabolari possibili, dal balletto alla danza sportiva, dalla aerobica all’hiphop, ai gesti quotidiani. I diciassette si sparpagliano nella scena vuota, chiusi dentro la loro personale partitura di gesti tempi ritmi. Si ‘sbattono’ letteralmente- ciascuno a suo modo, abbigliato o meno con il consueto vestiario da trovarobato tipico dell’oggi per far balzare agli occhi prima della pulizia del gesto estetizzante la variabile umana con la verità delle carni, del sudore, dei rossori da fatica. Anche qui, inizialmente travolti dall’ondata dinamica di esseri involuti nel proprio mondo coreografico che si muovono come monadi nello spazio, assistiamo schiacciati nelle nostre poltrone. Mentre il Requiem di Mozart aleggia nell’aria, però, emerge accennata ma non labile la scrittura spaziale-sonora-emotiva di Charmatz, che sottilmente inizia a trascinarci sensorialmente oltre che intellettivamente dentro questa infernale giostra di corpi. Prima attraverso lo sguardo; poi attraverso la voce ( la sequenza di urla degli interpreti scuote le viscere e istiga ad unirti al grido); poi con il tatto – elaborando sempre più complessi gruppi in scena, ma anche portando al diretto contatto fisico con noi ( arrivano a strusciarsi contro le nostre schiene o teste, abbracciarci, rubarci scarpe e giacche per farle volare in aria). Ma alla fine l’effetto della piéce è ancora una volta straniante, perché quello che parte come un esercizio di composizione e invenzione gestuale si trasforma -grazie anche all’intensità degli interpreti- in qualcosa di più misterioso, viscerale, profondo. Anche disturbante, magari: ma vitale e pulsante anche per noi.
Ben più rassicurante certamente risulta così l’ormai celeberrima scena del ballo ‘di comunità’ in cui culmina Minus 16 – selezione di lavori di Ohad Naharin presentati questa volta dalla Gauthier Dance Company di Stoccarda, per tre anni da ora compagnia associata al festival. Invitati dai ballerini a seguirli in Sway gli spettatori che piano piano sciolgono le proprie riserve e si trovano a disegnare la coreografia disegnata da Naharin sono anch’essi esempio di straniamento: di un momento sospeso nel tempo, nella quale la finzione del teatro e la realtà della vita si sfiorano prima di far riprendere a ciascuno il proprio posto. Ma in Naharin questo attimo di (non)trascurabile felicità risulta essere finalmente un vero empatico e condiviso stato di grazia – lo dimostrano gli applausi e le grida felici del pubblico che immancabilmente accompagnano il rito ad ogni spettacolo.
Ancora straniante, ma sconvolgente per alto tasso emozionale, tutto affidato all’implosione energetica dei movimenti del busto, delle mani e delle braccia tipici dello stile di Marco Goecke è l’assolo Infant spirit, che il coreografo di Wuppertal ha immaginato in memoria di Pina Bausch. L’inconfondibile raffinata oscurità che fa sbalzare i gesti zigzaganti, i giri velocissimi, gli spasmi e poi i profondi respiri del danzatore, che si muove sulla elegiaca ballata di Anthony and the Johnsons, raccontano dolore, smarrimento, angoscia, rimpianto. Un’asta da microfono con un garofano rosa ( rimando a Nelken), illuminato da un cuneo di luce rivela un’assenza incolmabile, che può rigenerarsi -dice Goecke- solo nel cuore di ciascuno e nella sua memoria. E così con un tocco poetico dal taschino della giacca spunta un altro garofano rosa, sul cuore. In questo assolo, clou della serata Gauthier ( che ha nel delicato Beating di Virginie Brunelle e nel dinamico Electric Life di Gauthier & Foniadakis gli altri titoli) torna a proporsi il talento interpretativo di un nostro eccellente danzatore, Rosario Guerra, il cui magnetismo scenico è valore aggiunto della pimpante formazione.
Ultime note del lungo report per la Michael Clark Dance Company e Lali Ayguadé. Il primo, nome storico del rivoluzionario movimento dei New Young Artists britannici tra punk e tradizione è tornato immutato/immutabile con un trittico tra Satie, Patti Smith e David Bowie in cui il suo stile austero, pulitissimo, nervoso e geometrico -e scarsamente adattabile- si è accostato, senza coinvolgento, alle tre partiture musicali. La catalana Lali Aygaudé, formatasi a P.A.R.T.S. in Belgio, ancora una volta ci riporta all’idea dello straniamento. Perché elabora una piéce in cui i temi della morte e della perdita diventano il fulcro di brevi scene tra parole e movimento, scherzi e drammi tra quattro (ottimi) interpreti. Un piccolo manuale, dice Lali, per sopravvivere al dolore. Ma ancora acerbo nella scrittura coreografica e nella drammaturgia per arrivare a toccare empaticamente il pubblico preparato e esigente di Bolzano Danza.
foto di copertina Veduta, di Andrea Macchia Bolzano Danza