Un firmamento di stelle per la centesima edizione del festival areniano, con un paio di allestimenti da scoprire tra le immancabili riprese. In attesa di tornare a Verona per parlare della nuova Aida, abbiamo visto il Rigoletto neorealista a firma di Antonio Albanese. Davide Annachini
Stagione di centenari per l’Arena Verona, che quest’anno festeggia la sua centesima edizione – la prima fu in realtà nel 1913 ma le due guerre mondiali e il Covid ne hanno fatto saltare ben dieci – insieme ai centenari della Callas e di Zeffirelli, nomi per motivi diversi indissolubilmente legati al festival areniano.
Per l’occasione la riconfermata sovrintendente Cecilia Gasdia ha approntato un piatto ricco, non solo per numero di titoli ma anche per presenze di star internazionali, magari impegnate per un’unica recita ma comunque fondamentali per dare lustro a una rassegna di grande respiro e interesse. Due gli allestimenti nuovi (Aida firmata da Stefano Poda e Rigoletto da Antonio Albanese) e riprese gli altri, legati ai nomi di Zeffirelli, De Ana, De Bosio.
Questi ultimi hanno forse risentito del tempo, per la progressiva usura scenografica ma soprattutto per l’invecchiamento delle soluzioni registiche, come nel caso della collaudatissima Carmen di Franco Zeffirelli, che del fastoso allestimento originale ispirato alle incisioni di Gustave Doré ha conservato ormai ben poco se non il pittoresco horror vacui di comparse, danzatori (con la partecipazione folclorica della compagnia di Antonio Gades) e cavalli, sempre a rischio di azzoppamento ma che in Arena sono una garanzia di successo popolare. Lo stesso dicasi per il Barbiere di Siviglia a firma di Ugo De Ana, che di anni rispetto alla Carmen ne ha meno ma che in questa ripresa è apparso piuttosto polveroso nel gigantesco roseto che fa da scena, utilizzato troppo spesso come arredo urbano durante i festival passati, ma ancor più nella regia, un tempo brillantissima ma ora francamente un po’ forzata nel tentativo di far ridere un pubblico troppo vasto e per lo più estraneo alla comicità di tradizione italiana.
Le cose migliori si sono quindi potute apprezzare nelle esecuzioni musicali, con la direzione sapientemente liricizzata e impeccabilmente sorvegliata di Daniel Oren in Bizet e quella misurata anche se un po’ ingessata della giovane promessa locale Alessandro Bonato in Rossini. Da sottolineare in particolare alcune voci, che come si è detto hanno sempre garantito una qualità di livello ai diversi cast alternatisi nel corso delle repliche. Quindi in Carmen più che Clémentine Margaine, mezzosoprano di vocalità sontuosa ma dalla presenza scenica troppo legnosa per poter giustificare il successo internazionale della sua interpretazione di un ruolo così legato al physique du rôle, o Erwin Schrott, Escamillo come sempre prestante ma un po’ appesantito vocalmente, hanno colpito il Don José elegante e dalle raffinate filature, in perfetto stile francese, del tenore americano Freddie De Tommaso e ancor più l’incantevole Micaela di Mariangela Sicilia, soave e intensa, sfumatissima e incisiva.
Nel Barbiere, più che il Figaro stagionato e ormai privo di souplesse di Dalibor Jenis, il pezzo forte era costituito dalla Rosina di Vasilisa Berzhanskaya, giovane mezzosoprano con ambizioni anche sopranili (recentissimo il suo debutto addirittura in Norma) di vocalità densa, suggestiva, estesissima e virtuosistica, che qui ha figurato su tutti anche se non quanto avrebbe potuto grazie ad una scelta delle variazioni più meditata stilisticamente. Antonino Siragusa (Almaviva), Carlo Lepore (Bartolo) e Michele Pertusi (Basilio) hanno garantito con la loro consumata militanza rossiniana un’esecuzione sempre musicale, vivida e di gusto sorvegliato quanto accattivante almeno nell’espressione, cosa non facile da far fruttare nelle sconfinate vastità areniane per una commedia tutta giocata sulla parola.
Il nuovo allestimento di Rigoletto ha mostrato il lato debole spesso riscontrabile nelle regie affidate ad attori o a protagonisti del mondo del cinema e della prosa, talvolta estranei al linguaggio dell’opera e ai tempi musicali di un teatro così atipico. In questo caso Antonio Albanese ha voluto lasciare una cifra personale nel trasportare in epoca moderna il soggetto di Victor Hugo e nell’ambientarlo in una realtà padana del dopoguerra, che ancor più di Bellissima di Visconti – citata in un frammento proiettato all’inizio dell’opera – faceva pensare al neorealismo di Ossessione e Riso amaro. Quello che però non tornava in questa idea era la carenza di cinismo nella corte gonzaghesca, di tracotanza nel Duca di Mantova, di ingiustizia subita dai deboli, tanto la trasposizione scelta suggeriva un divario meno avvertibile tra potente e suddito. Soprattutto veniva a mancare in questo spettacolo – dalle scene dimesse e architettonicamente improbabili di Juan Guillermo Nova, dai costumi non esaltanti di Valeria Donata Bettella, dalle luci di Paolo Mazzon e dalle coreografie di Luc Bouy – quella cura nella recitazione dei solisti e nella gestione delle masse che era logico aspettarsi da un attore sensibile come Albanese, autore prudente e spesso convenzionale di una messinscena tutto sommato di tradizione.
Anche qui l’hanno fatta da protagonisti i cantanti, che però, a forza di alternarsi con apparizioni da toccata e fuga, hanno mostrato certo scollamento dalla concertazione dell’opera, obbligando il direttore Marco Armiliato ad un’inevitabile cautela nel gestire i tempi, tendenzialmente dilatati per consentire agli interpreti dell’ultima ora di allinearsi all’esecuzione meno problematicamente. Quindi ancora la seconda recita mostrava qualche incertezza esecutiva, nel rapporto orchestra e coro e anche da parte di un fuoriclasse come Ludovic Tézier, Rigoletto dal canto aristocratico, intenso e prezioso nelle intenzioni come pochi altri baritoni verdiani in circolazione, ma anche di tanto in tanto in affanno esecutivo quanto a coesione con l’insieme. Impeccabile è invece sembrato il giovane soprano Giulia Mazzola, al suo debutto areniano come Gilda romantica e appassionata, dalla voce rotonda, vibrante e ricca di sfumature che hanno svelato un’interprete suggestiva al di là della purezza del canto. Interessante il Duca di Mantova di Yusif Eyvazov, che smessi momentaneamente i panni di Radames ha mostrato di saper gestire come i tenori di una volta tanto il genere drammatico quanto quello brillante, con grande franchezza esecutiva ed estensione negli acuti (notevole il re bemolle a chiusura della stretta nel duetto con Gilda), a dispetto di un timbro discontinuo e gutturale ma a suo modo personalissimo nel restituire un libertino più maschio del solito. Fatta eccezione per il tonante Sparafucile di Gianluca Buratto e la valida Maddalena di Valeria Girardello, la schiera degli interpreti minori non ha mostrato troppe luci, a differenza di qualche anno fa, in cui i cast areniani brillavano per maggiore omogeneità vocale.
Caloroso come sempre il riscontro del pubblico.
Visti il 23, 24 giugno, 7 luglio