Maria Egiziaca torna a Venezia, nel segno di Pizzi, ed è un successo

Calorosa accoglienza al Teatro Malibran di Venezia per una rarità come Maria Egiziaca di Respighi, riproposta dopo più di novant’anni dalla Fenice in un ispiratissimo spettacolo a firma di Pier Luigi Pizzi. Davide Annachini

Rara e preziosa proposta quella della Fenice di Venezia, che al Teatro Malibran ha presentato Maria Egiziaca di Ottorino Respighi, “mistero in tre episodi” ispirato alla biblica prostituta alessandrina convertitasi al Cristianesimo e assurta a santa dopo una vita di stenti e penitenza, al pari di una novella Maddalena. Originariamente pensata come opera da concerto, da eseguirsi in forma oratoriale come in effetti avvenne al suo debutto alla Carnegie Hall di New York nel 1932, nello stesso anno Maria Egiziaca conobbe la prima trasposizione scenica proprio a Venezia, al Teatro Goldoni, nell’ambito del Festival internazionale di musica moderna della Biennale. Venne così inquadrata come un vero e proprio trittico – ripartito in tre episodi intervallati da due interludi strumentali, atti a simboleggiare i viaggi di redenzione della peccatrice, prima in Terra Santa e poi nel deserto – in cui la stessa scenografia (già pensata comunque anche per l’esecuzione concertistica alla Carnegie Hall) intendeva restituire l’immagine di un autentico polittico gotico, di suggestione liturgica.

Per quanto circoscritta a poco più di un’ora di musica, Maria Egiziaca ebbe così modo di rientrare nella produzione operistica del compositore bolognese – contraddistinta da titoli di ben più ampio respiro come La campana sommersa e La fiamma – e di segnalarsi, pur nella sua atipicità, come lavoro di grande interesse e finezza musicale. Infatti la scrittura vocale e la strumentazione evidenziano citazioni tra le più disparate, dal canto gregoriano all’opera del Novecento, dall’asciutto recitar-cantando alle suggestioni decadenti dello stile francese di fine secolo. Sotto questo aspetto Respighi mostrava – al di là della popolarità autarchica goduta sotto il Fascismo – una cultura musicale di respiro europeo, attinta già in gioventù a San Pietroburgo grazie ai paterni consigli di un Rimskij-Korsakov ma poi sviluppata con la versatilità e la curiosità dell’autentico sperimentatore, che non perdeva però mai di vista l’autenticità di uno stile personale e originalissimo, seppure scopertamente eclettico, quanto non privo di una nobile vena poetica. Nell’opera forse questa originalità veniva meno nel rapportarsi a livello librettistico allo stile infarcito di arcaismi e di compiaciute ricercatezze dannunziane del fedele Claudio Guastalla, che nello spirito accademico dell’epoca tendeva a ingessare la musica di Respighi in una confezione dal gusto estetizzante spesso fine a se stesso, per lo più involuto e distaccato. Sotto questo aspetto anche Maria Egiziaca è figlia della sua epoca, nell’esibire un testo così ermetico (non a caso per questa riproposta si è pensato bene di sostituire alcuni termini con analoghi più abbordabili e meno ambigui) da rendere l’opera inevitabilmente datata ma non per questo priva di un suo fascino, che tanto la struttura simbolica del trittico quanto la musica raffinatissima di Respighi riescono a imporre, confermando la qualità di una partitura sicuramente preziosa, anche se non esattamente in grado di essere riabilitata in toto.

Grande merito della Fenice nel rendere la proposta assolutamente vincente è stato quello di affidare la messinscena a Pier Luigi Pizzi, superbo evocatore di ambientazioni sublimi e oniriche quanto consumato interprete di peccatrici redente (come proprio a Venezia si ricordano le sue indimenticabili Thais e Kundry), che nella purezza scenografica e nella suggestione delle proiezioni di questo allestimento (luci di Fabio Barettin) ha colto perfettamente la cifra di un’opera così in bilico tra simbolismo e astrazione, tra erotismo e spiritualità. E la sua capacità si stilizzare la recitazione in una statuarietà bellissima quanto espressiva ha servito al tempo stesso la musica al meglio, dandole pieno respiro ed evidenza, come giustamente dovrebbe essere soprattutto nel caso di una rarità come questa.

Sotto la guida di un maestro della scena come Pizzi – l’ultimo della grande tradizione italiana –  e di un maestro concertatore sensibile come Manlio Benzi, che ha diretto con grande convinzione e nitidezza gli organici della Fenice (maestro del coro Alfonso Caiani, Roberta Paroletti al clavicembalo), la compagnia di canto si è espressa al meglio. Francesca Dotto è stata una Maria di bella voce e presenza, duttile in una scrittura vocale spesso scomoda e appassionata nella restituzione di una protagonista agitata tra sensualità e misticismo, Simone Alberghini un austero e cupo pellegrino/abate Zosimo, Vincenzo Costanzo un marinaio/lebbroso di solare schiettezza tenorile. Per scolpitezza scenica e puntualità vocale si sono segnalati poi tutti i giovani interpreti delle parti di contorno, dal limpido compagno di Michele Galbiati all’atletico altro compagno/povero di Luigi Morassi, per arrivare alla cieca/voce dell’Angelo di Ilaria Vanacore, alla voce dal mare di William Corrò, alla controfigura di Maria negli interventi coreutici di Maria Novella Della Martira.

Caldissimo il successo di pubblico, con acclamazioni festosissime per Pizzi.

 

Visto il 10 marzo al Teatro Malibran di Venezia