Un Nabucco spaziale e simbolico inaugura l’Arena di Verona

Una messinscena tecnologica a firma di Stefano Poda ha dato il via nel nome di Verdi al festival veronese, che anche quest’anno si segnala per presenze internazionali e per un cartellone esteso su quattro mesi, fitto di appuntamenti da non perdere. Davide Annachini

Edizione 102 per l’Arena di Verona Opera Festival, che quest’anno si è inaugurata con un nuovo allestimento di Nabucco, produzione di punta di una stagione dedicata a Verdi (oltre a Nabucco, tornano Aida, Traviata, Rigoletto) e ai 150 anni di Carmen, ricchissima di appuntamenti con presenze di livello internazionale sino ai primi di settembre.

Per Nabucco la scelta è caduta nuovamente su Stefano Poda, già artefice della cosiddetta “Aida di cristallo” di due anni fa, alla quale anche questa messinscena tecnologica è sembrata rifarsi, nell’utilizzo di superfici specchianti, di raggi laser, di atmosfere spaziali, di effetti speciali, come l’esplosione “a fungo” che veniva a evocare la caduta del fulmine divino sul capo del sovrano babilonese in delirio di onnipotenza.

Al solito Poda non ha guardato a riferimenti storici, ricreando con il suo stile astratto ed enigmatico una narrazione sospesa, stilizzata, simbolica, fatta di costumi altalenanti tra le tute degli astronauti e l’alta moda con decorazioni fosforescenti a led, di due monumentali valve luminose destinate a congiungersi a sfera in un lieto fine dai più svariati significati, di movimenti scenici e coreografici d’assoluto rigore geometrico, ispirati alla scherma. Se questa messinscena puntava a garantire le attese di una spettacolarità areniana, si può dire che abbia sicuramente centrato nel segno, con la professionalità e l’eleganza tipiche dello stile del regista trentino, che nel passare da un’opera all’altra sembra voler rimanere principalmente fedele alla sua cifra identificativa più che al desiderio di variare a seconda del titolo specifico. Di conseguenza questa priorità stilistico-estetica ha riconfermato la qualità creativa di un autore immaginifico e fantasioso, per quanto in questo Nabucco non sempre alla portata di un pubblico popolare che, seppure soggiogato dalla bellezza delle soluzioni visive, può trovarsi spiazzato nell’aspettativa di un primo Verdi dalla drammaturgia bruciante o nel tentativo di riconoscere i solisti tra i moltissimi figuranti, fagocitati in un ingranaggio che non lascia spazio al protagonismo individuale.

Di sicura impronta verdiana e di assoluto respiro internazionale era invece il cast della prima, che nelle repliche vedrà alternarsi nomi di altrettanto prestigio, come nel caso di tutte le opere in cartellone, confezionato al solito con infallibilità vocale dalla sovrintendente Cecilia Gasdia.

Nel giro di pochi anni Amartuvshin Enkhbat è entrato a far parte di quella rosa ristrettissima di baritoni che si potrebbero elencare sulle dita di una mano, in grado di assolvere alle pretese verdiane di un canto ampio, nobile, omogeneo nel colore e incisivo nel fraseggio, qualità materializzatesi come per miracolo in questo cantante, proveniente dalla lontana Mongolia e poco padrone della nostra lingua, grazie a un’emissione di antica scuola italiana e a una dizione impeccabile davvero inimmaginabili. Il suo Nabucco si è imposto per l’autorevolezza regale ma ancor più per un’umanità sofferta nei momenti di ripiegamento intimista, in un canto a mezzavoce di rara purezza e toccante sensibilità, trovando contraltare nell’imponente Abigaille di Anna Pirozzi, specialista sul campo di una delle parti più temibili del repertorio verdiano per la solidità vocale con cui ha affrontato i bruschi salti di registro dall’acuto al grave, le tonanti impennate ai do, la coloratura a piena voce, quanto al tempo stesso le sfumature nella fascia centrale della tessitura. E anche come interprete ha dominato, nel restituire non solo il carattere collerico e ambizioso del personaggio ma anche il suo lato più nascosto, sofferto e vulnerabile, di donna e figlia non riamata. Con la sua vocalità morbida e omogenea di basso, Roberto Tagliavini è stato uno Zaccaria nobilmente austero, forse non di imponenza michelangiolesca nella prima aria ma sicuramente toccante nella preghiera del secondo atto, mentre in una parte verdiana decisamente meno impegnativa rispetto ad altre affrontate di recente Francesco Meli si è segnalato come un Ismaele di lusso, per il luminoso timbro tenorile e la fierezza del fraseggio, a fianco della preziosa Fenena di Vasilisa Berzhanskaya, belcantista raffinatissima anch’essa sottoutilizzata in questa occasione rispetto alle sue incredibili potenzialità. All’altezza di questo prestigioso quartetto si sono fatti valere l’Abdallo di Carlo Bosi, l’Anna di Daniela Cappiello e il Gran Sacerdote di Belo di Gabriele Sagona, insieme al coro areniano (preparato da par suo da Roberto Gabbiani), che come si sa in Nabucco è protagonista prima di ogni altro.

Sul podio dell’Orchestra dell’Arena, Pinchas Steinberg ha diretto un Verdi meno risorgimentale dell’abituale nello stacco dei tempi ma elegante nel disegno narrativo, sfumato nei colori, teatrale nell’impatto, che ha dovuto solo scontare alcuni peccati veniali negli isolati scollamenti tra buca e palcoscenico, comprensibili d’altronde in una prima recita, destinata a vedere perfezionati tutti i particolari nel corso delle numerose repliche.

Un’accoglienza caldissima di pubblico e la ripresa televisiva per la Giornata Mondiale della Musica il 21 giugno sono state le felici premesse di una stagione ricca di tanti altri appuntamenti da seguire, che con questo Nabucco è senz’altro partita con il piede giusto.

 

Visto all’Arena di Verona il 13 giugno.

 

 

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