La grande star russa, con la sua Abigaille in versione Batwoman, ha dominato anche quest’anno l’Arena di Verona, giunta a metà di un festival ancora ricco di sorprese. Davide Annachini
Arrivato al giro di boa, con ancora metà programma da condurre in porto sino agli inizi di settembre, l’Arena di Verona Opera Festival può dire di aver già raccolto molte soddisfazioni, di pubblico, di incassi ma soprattutto di risultati artistici, dove in particolare il ritorno delle grandi star – promosso anni fa da Cecilia Gasdia, sovrintendente quanto mai illuminata e consapevole in fatto di voci – ha riportato ai fasti di un tempo la più grande manifestazione operistica estiva d’Italia. Che su questa scia ora altri festival si allineino – in virtù più che altro di un abile gioco di agenzie – non toglie il fatto che gli artisti internazionali abbiano ritrovato nell’Arena un palcoscenico irrinunciabile com’era cosa comune sino agli anni Settanta, quando le grandi star erano di casa sul palcoscenico veronese.
La prima a dare il via a questo “Grand Tour” è stata Anna Netrebko, number one del mondo dell’opera, che dal 2019 è ospite fissa in Arena, dove ha siglato momenti indimenticabili e di grande richiamo popolare. Quest’anno, pur dovendo cancellare le recite di Aida previste in agosto, il soprano russo ha mantenuto fede alla sua presenza in Nabucco quale debutto italiano nel ruolo di Abigaille, che riprenderà anche alla Scala nella prossima stagione. Parte questa tra le più impervie del giovane Verdi, che si colloca per la Netrebko tra i trofei di una lunga carriera, iniziata con i ruoli leggeri e di coloratura per arrivare poi a quelli più drammatici degli ultimi anni, come Lady Macbeth, Turandot, Gioconda. Già all’apparire in scena, la sua Abigaille ha impresso immediatamente una cifra diversa e coerente allo spettacolo tecno-spaziale di Stefano Poda, con il suo incedere imperioso e felino, dalle felpate movenze di pantera, in bilico tra Batwoman e una virago sadomaso, con tanto di frusta e tacchi a spillo. Ma al di là di questa icona fumettistica – possibile solo grazie al fisico invidiabile e al carisma dell’interprete – è stata ancora una volta la cantante a stupire per la vocalità ampia e omogenea, impavida nell’affrontare gli sbalzi di registro tra grave e acuto con slancio impressionante quanto capace di smorzarsi in pianissimi incantevoli persino sui do estremi, come nel terzetto o nella cadenza dell’aria, eseguita dalla Netrebko con il rimpianto per un’innocenza perduta di struggente e raro intimismo, in una parte per lo più risolta invece dai soprani con il mero tonnellaggio vocale.
Ma la diva non era sola in campo: Amartuvshin Enkhbat si è riconfermato il migliore baritono del momento quanto a nobiltà di canto e di stile, che riportano alla grande tradizione italiana grazie a una voce usata con morbidezza, omogeneità di timbratura, eleganza di sfumature di cui si era persa memoria, Francesca Di Sauro è stata una vibrante e intensa Fenena quanto una voce di mezzosoprano da tenere d’occhio, Galeano Salas ha delineato un Ismaele di grande correttezza vocale mentre Christian Van Horn ha confermato la difficoltà del ruolo di Zaccaria, nel risolvere la preghiera del secondo atto con buone intenzioni espressive ma mostrando un certo disagio nelle impennate acute a cui è sottoposta la voce del basso nell’aria di ingresso. Sotto la direzione più carburata rispetto alla prima di Pinchas Steinberg, questo Nabucco sarà ricordato soprattutto per l’allestimento fantascientifico di Stefano Poda, di cui si è già scritto, programmato anche per la prossima stagione areniana, che si inaugurerà invece con una nuova produzione della Traviata.
Quella di quest’anno era invece la ripresa della collaudata Traviata firmata da Hugo De Ana nel 2011, uno spettacolo trasportato alla Belle Ėpoque e dominato da grandi cornici in cui la storia di Violetta si inquadrava come le stampe di un passato sbiadito nel tempo. Forse qui la scelta della protagonista non è stata delle più azzeccate, anche se si trattava di una delle star del Metropolitan di New York, Angel Blue, che un paio d’anni fa aveva innescato una polemica proprio contro l’Arena all’insegna del black-face, con il conseguente suo forfait e un’eco amplificata dalla stampa americana. Dotata di voce bella ma purtroppo alquanto indurita sugli acuti, dove il canto ormai non si piega al di sotto del forte, il soprano di colore ha colto i suoi momenti migliori nei cantabili di tessitura centrale (“Dite alla giovine”, “Alfredo, Alfredo, di questo cuore”), dove la pastosità luminosa del timbro e il legato si sono fatti valere, a differenza del virtuosistico “Sempre libera” in cui i nodi sono venuti al pettine, con un palese disagio e forzature ripetute sugli estremi acuti. Ma è stato soprattutto l’impaccio scenico – condizionato anche dalla monumentale figura – a rendere scarsamente credibile la sua Violetta, soprattutto in una regia come questa, che costringeva la protagonista a cantare il finale del primo atto in guêpière e sospesa su una gigantesca cornice. Sorvolando anche sul vezzo molto americano di sottolineare in maniera realistica alcuni momenti espressivi, come nel caso dei sonori colpi di tosse espettorati già sul primo preludio, il pubblico ha comunque accolto calorosamente la Violetta della Blue, che si trovava affiancata dall’ottimo Alfredo di Galeano Salas – tenore di voce lirico-leggera usata con grandissimo gusto quanto a sfumature e fraseggio – e dall’eccellente Germont di Amartuvshin Enkhbat, di nuovo insuperabile in una parte di grande autorevolezza vocale come questa, sotto la direzione competente ma alquanto flemmatica di Speranza Scappucci.
Arrivata ai trent’anni di ripetute riprese, la Carmen di Franco Zeffirelli ha rinnovato il successo di sempre, quello di uno spettacolo dell’antica tradizione scenografica, un po’ bozzettistica ma di sicuro impatto spettacolare, che in quest’occasione veniva a onorare i centocinquant’anni dell’opera di Bizet. Qui grande protagonista è stata Aigul Akhmetshina, giovane mezzosoprano russo di voce bellissima, ampia, estesa, ricca di armonici e dal colore di densa intensità timbrica. Se si aggiunge la suggestiva presenza scenica si può capire come la sua sia stata una Carmen completa e affascinante, tanto nel versante brillante e sensuale quanto in quello tenebroso e drammatico. Questa star, che nel giro di pochissimi anni è arrivata ad essere contesa da tutti i maggiori teatri internazionali, ha condiviso il successo con un tenore di consumata esperienza come Roberto Alagna, in grado di consegnare un Don José ancora suggestivo in certi sprazzi luminosi del timbro e per l’impronta di interprete sempre appassionato e incisivo, con la Micaela raffinata e poetica di Aleksandra Kurzak, con l’Escamillo vibrante e un po’ guascone di Erwin Schrott, sotto la direzione di Francesco Ivan Ciampa, collaudatissima ed esperta degli spazi areniani quanto a risposta di orchestra e coro, quest’ultimo preparato da par suo da Roberto Gabbiani.
Ma i giochi non sono fatti e nelle prossime cinque settimane saranno altrettante le presenze di lusso in Arena, quali Nadine Sierra, Jonas Kaufmann, Marina Rebeka, Piotr Beczala, Ludovic Tézier, Yusif Eyvazov (solo per citare i nomi meno di casa dalle nostre parti), a conferma di una stagione con tante sorprese ancora tutte da scoprire.
Visto all’Arena di Verona, giugno-luglio 2025
(EnneviFoto)