A conclusione della seconda affollata NID New Italian Dance Platform una manciata di riflessioni nel nome di Vaslav Nijinsky – Silvia Poletti
Diciotto compagnie, quattro giorni di spettacoli, cinque sale teatrali, un centinaio di operatori tra italiani e stranieri, dieci sold out, quattro tavoli tematici, cinquanta relatori. Archiviati i numeri della NID Platform 2014 restano appunti sparsi per una riflessione. La seconda edizione della (Nuova) vetrina della danza italiana, nata dall’iniziativa di operatori del settore della distribuzione e promozione nazionale (riuniti nella sigla RTO) insieme al MIBACT e le Regioni partner (quest’anno la Toscana, dato che la manifestazione si è svolta a Pisa, con appendice a Pontedera, per l’organizzazione di Fondazione Toscana Spettacolo con Fondazione Teatro di Pisa e Fondazione Fabbrica Europa), come già era avvenuto nella prima edizione pugliese, continua ad evidenziare tendenze con annesse problematiche da non sottovalutare.
Si avverte sempre più evidente, anzi prepotente (anche un tantino arrogante?) la volontà di operare per la determinazione, quando non l’affermazione tout court, di una concezione di teatro di danza ‘contemporaneo’, che ha nella sua logica la negazione dell’idea stessa di coreografia, se non di danza. Un teatro di danza spesso afasico, quasi sempre autistico, sostenuto da pochissime idee drammaturgiche ribadite all’infinito, stilisticamente confuso, e quel che è peggio, quasi sempre privo di connessione emozionale con lo spettatore. È una volontà che si ravvisa in maniera evidente non solo nella formazione della commissione selezionatrice con esperti operanti in ben preciso ambito (salvo due eccezioni), ma anche nella tipologia della maggior parte di operatori invitati, che arrivano a indignarsi se vedono una linea pulita, una tensione vera e un vero disequilibrio, in una parola un senso di quella bellezza del corpo consapevole e del movimento necessario, che invece si tende a rifuggire aprioristicamente, perché malintesa – o forse non intesa affatto.
Senza stare a sottolineare che ovviamente qui si parla di bellezza etica-estetica – incarnata anche nelle deformità violente, ma vibranti di ragion d’essere di gran parte del teatro coreografico odierno degno di un riconoscimento – sorge allora davvero il sospetto che si stia ergendo una compatta barriera ideologica, autoalimentata in una sorta di circolo vizioso dagli stessi appartenenti, che però riesce a farsi riconoscere autorevolezza e quel che è peggio autorità di maitres à penser assolutistici, non disposti ad alcun scambio dialettico. Privi di curiosità intellettuale, ma non di volontà di conquistare posizioni referenziali – magari in qualche stanza dei bottoni – costoro, come diceva Vittoria Ottolenghi, “hanno paura di Vaslav Nijinsky”: come a dire, hanno paura della storia di un’espressione artistica, ma anche del genio che ha saputo rivoluzionarla. Da cui, incapacità di riconoscere i segni della danza, le regole del concetto coreografico, il minimo tecnico-artistico inderogabile per riconoscere un performer professionista dall’amateur casuale e dal puro e semplice dilettante; e di conseguenza il cieco sostegno al (presunto) nuovo, buttato allo sbaraglio anche con una certa incauta disinvoltura.
Bisogna però stare molto attenti: perché, se altrove questo humus creativo confuso è alimentato e fatto germogliare con zelo ed entusiasmo, ciò avviene non a discapito di altre forme di danza di vario genere – ben consolidate, sostenute e rispettate. In Italia, invece causa una discontinua e confusa politica culturale il terreno su cui poggia la cosa/danza è talmente friabile, franoso e così poco solido che lo sbilanciamento esclusivo verso una tendenza (per altro ancora acerba e inconsistente), come quella mostrata anche a Pisa rischia di far crollare tutto e disperdere quello che di buono si è fatto in trent’anni.
Per ciò che riguarda il versante spettacoli, sul nostro account Twitter abbiamo scritto le nostre impressioni critiche sulle varie performance, installazioni e spettacoli praticamente in presa diretta. A pochi giorni dalla fine della manifestazione, dal magma caotico e tutto sommato omologante, emerge però ancora le silhouette nitida rigorosa e bella di Marina Giovannini in Meditation on Beauty n.1, gli otto teneri e sinceri cuori smarriti della Generazione Erasmus nella piéce di teatro-danza OOOOOOOO a firma di Giulio D’Anna, la forza scenica e l’energia dei sei solisti di Aterballetto che diffondono onde di movimento suadenti e magnetiche in Tempesta di Cristina Rizzo.
Splendido articolo, magistrale – direi.
L’impreparazione e la superficialità, spacciate per originalità e capacità innovativa, stanno facendo molto male alla danza e – più in generale – allo spettacolo, attualmente. Per fortuna però trovano sulla loro strada articoli argomentati e lucidi come questo.
Dovrebbe però acquisire maggior peso la reazione di chi non condivide la china “spontaneista” presa da una parte del mondo dell’espressione artistica nel nostro tempo.
Per questo – e per complimentarmi con l’autrice dell’articolo – ho ritenuto doveroso esprimere questi miei brevi pensieri.
Grazie del commento Giulio. In effetti credo che sia urgente una riflessione comune sull’argomento. I feedback che stanno arrivando anche tramite i social ci spingono a operare in tal senso. Continui a seguirci, a presto sp.
Grazie a te, Silvia, davvero.
Buon futuro…
Naturalmente il brevissimo commento precedente era mio…
Finalmente. Vorrei davvero poter discutere con la sig. ra Poletti: è diverso tempo che sostengo queste impressioni, e trovo magistrale il modo in cui ha sottolineato il pauroso assottigliamento della divisione fra performer professionista e il dilettantismo casuale e non sostenuto da un bagaglio tecnico e coreografico. spero di poterla contattare!