Il progetto di Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri per il Teatro di Roma, “Ritratto di una capitale”, ci restituisce l’immagine di una metropoli incapace di guardare al futuro con fiducia ma sempre alla ricerca di un denominatore comune fra le generazioni – Renato Palazzi
Vorrei trarre qualche spunto di riflessione da un evento che si è verificato la settimana scorsa, il Ritratto di una capitale che il neo-direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, ha progettato e realizzato in collaborazione con Fabrizio Arcuri: il collage di ventiquattro scene affidate a ventiquattro autori che raccontano – ciascuno alla sua maniera – una giornata della città, colta in orari e luoghi diversi, è infatti una costruzione troppo articolata e frammentaria per essere recensita come un normale spettacolo. Suggerisce degli interrogativi di ordine generale, più che un mero giudizio estetico.
Rappresentare in venti minuti delle storie dotate di senso è impresa ardua, sempre a rischio di cadere nell’aneddoto o nel colore locale: c’erano testi, come Angeli cacacazzi di Elena Stancanelli, o Roma est di Roberto Scarpetti, che, pur nella breve durata, apparivano risolti e compiuti. C’erano testi – la maggior parte – che partivano da buone idee per poi incorrere fatalmente in qualche scompenso o errore di misura. E c’erano infine delle scelte per certi versi “obbligate”, il capitolo sul ghetto, le facezie del cantautore romano, che magari stonavano col resto, ma nel quadro d’insieme ci dovevano stare.
L’idea in sé della composizione a più voci comportava d’altronde già all’origine un andamento piuttosto alterno. I nomi stessi degli autori coinvolti, da Giancarlo De Cataldo ad Ascanio Celestini, da Letizia Russo a Fausto Paravidino, da Ricci/Forte a Emanuele Trevi – con due ideali introduzioni, La capitale mancata di Corrado Augias e L’insaziabile imperatrice di una Franca Valeri provata dai suoi novantaquattro anni, ma mossa da un’incrollabile energia – indicavano comunque una molteplicità di stili e punti di vista. Ed è proprio la possibilità di accostare e confrontare fra loro materiali così diversi la principale attrattiva di simili operazioni.
Nel complesso, devo dire che questo Ritratto di una capitale forniva un’immagine di Roma estremamente interessante, più interessante, più spiazzante della Milano descritta anni fa da un’analoga “maratona” promossa dallo stesso Calbi: quello che emerge da questa sorta di introspezione pubblica è il quadro di una comunità imprevedibilmente smarrita, angosciata, che sembra faticare molto a conservare intatti i propri valori e le proprie radici. A parte le vicende di violenza e malaffare, colpisce l’insistenza con cui i testi presentati trattavano il problema – avvertito evidentemente con pressante urgenza – del rapporto con gli stranieri, con gli immigrati, visti come una minaccia all’identità della polis, al senso di appartenenza dei suoi abitanti.
Non per fare della sociologia spicciola, ma altre città italiane hanno vissuto l’esperienza di una difficile integrazione, che ha talora causato diffidenza o intolleranza, ma non questa diffusa sensazione di sgomento. Altre città hanno subito una radicale trasformazione del proprio tessuto sociale, ma senza questa ricorrente tentazione di ripiegarsi sui bei tempi andati. Stranamente, anche autori disincantati come Eleonora Danco o Lidia Ravera hanno espresso una nostalgia del passato in quanto tale, nostalgia dei quartieri, delle persone com’erano una volta, o come si immagina che fossero in una visione idealizzata. Persino i caustici Elvira Frosini e Daniele Timpano, nella loro irridente epistola Alla città morta, rimpiangevano cose e sentimenti di ieri.
Un altro tema affrontato da molti – o forse è lo stesso, espresso in altra chiave – è quello dell’intesa, della comunicazione fra individui di età e di cultura diversa, della ricerca di una continuità perduta fra le epoche e le generazioni: Eraldo Affinati che sviluppava un dialogo tra un vecchio romano e un giovane extra-comunitario, Valerio Magrelli che poneva l’uno di fronte all’altra un rude tossico e una anziana signora di buone maniere nel pronto soccorso di un ospedale – ma anche Paola Ponti, che raffigurava i duri scontri fra uno spacciatore di coca e il figlio che aspira a una vita migliore – questo in fondo parevano voler sottolineare, una crepa, un’ulteriore spaccatura nella coscienza collettiva.
Questo guardare a un’ipotetica armonia perduta, questa mancanza di prospettive sul presente e sul futuro, per chi arriva da fuori, è un atteggiamento piuttosto sorprendente, che induce a fare dei paragoni con la propria realtà, ricavandone delle proficue considerazioni. Ciò valeva a maggior ragione, credo, per i romani stessi, che nei ventiquattro piccoli componimenti – allestiti ciascuno con una propria cifra registica da Fabrizio Arcuri, ambientati nel versatile impianto scenografico di Luca Brinchi e Roberta Zanardo dei Santasangre, corredati dai bei video di Daniele Spanò, accompagnati dalle musiche dal vivo del gruppo rock Mokadelic – trovavano un’inedita possibilità di rispecchiarsi, di riconoscersi (o no) nelle loro incertezze e nei loro problemi.
Il buon esito di molti di questi brani dipendeva anche dall’apporto dei quarantuno interpreti. Erano tutti bravi, hanno tutti contribuito generosamente alla riuscita del progetto, ma alcuni avevano un peso più determinante di altri: vanno almeno ricordati, fra questi, Sandro Lombardi e Roberto Latini nei panni del poeta Victor Cavallo e di Leroy Johnson, il ballerino di Saranno famosi, “angeli cacacazzi” sospesi fra la vita e la morte, Milena Vukotic, eterea signora del pronto soccorso, Anna Bonaiuto, che svela la sua Roma onirica allo psicanalista in Odioroma di Mariolina Venezia, Lucia Mascino e il giovane Josafat Vagni, protagonisti del livido spaccato di cronaca di Scarpetti, in cui lei è un’infermiera rumena e lui il coatto che la uccide per futili motivi.
Piaccia o non piaccia, sono occasioni del genere che possono alla lunga rivitalizzare le istituzioni, creare nuovi legami fra il teatro e la città. Per questo mi ha un po’ stupito l’impressione di un certo distacco, di una certa scarsa curiosità da parte di critici e addetti ai lavori. Non posso e non voglio impartire lezioni a nessuno: ma dall’esterno si avverte un clima di divisioni e lacerazioni che non giova al teatro, e di sicuro non contribuisce a riempire le platee.
Ritratto di una capitale. Ventiquattro scene di una giornata a Roma
Un progetto di Antonio Calbi e fabrizio Arcuri
regia: Fabrizio Arcuri
colonna sonora composta ed eseguita dal vivo dai Mokadelic
set virtuale: Luca Brinchi, Roberta Zanardo / Santasangre e Daniele Spanò
testi di Eraldo Affinati, Ascanio Celestini, Eleonora Danco, Giancarlo De Cataldo, Anna Foa, Valerio Magrelli, Giuseppe Manfridi, Lorenzo Pavolini, Fausto Paravidino, Tommaso Pincio, Paola Ponti, Christian Raimo, Lidia Ravera, Ricci/Forte, Andrea Rivera, Letizia Russo, Elena Stancanelli, Roberto Scarpetti, Igiaba Scego, Francesco Suriano, Daniele Timpano/Elvira Frosini, Emanuele Trevi, Mariolina Venezia e la partecipazione straordinaria di Corrado Augias, Claudio Strinati e Franca Valeri
con: Daniele Amendola, Claudio Angelini, Matteo Angius, Antonella Attili, Anna Bonaiuto, Giovanna Bozzolo, Giorgio Caputo, Tiziano Caputo, Francesca Ciocchetti, Maddalena Crippa, Silvia D’Amico, Eleonora Danco, Roberto De Francesco, Anna Ferraioli, Elvira Frosini, Pieraldo Girotto, Anna Gualdo, Gamey Guilavogui, Liliana Laera, Roberto Latini, Lorenzo Lavia, Sandro Lombardi, Simon Makonnen, Giuseppe Manfridi, Vinicio Marchioni, Lucia Mascino, Francesco Montanari, Danilo Nigrelli, Filippo Nigro, Fabrizio Parenti, Constance Ponti, Alessandro Riceci, Andrea Rivera, Giovanni Scifoni, Daniele Timpano, Elodie Treccani, Josafat Vagni, Federica Zacchia, Paolo Zuccari, con la partecipazione straordinaria di Leo Gullotta e Milena Vukotic.