Le case di artisti scomparsi possono diventare straordinari centri di memorie e di cultura – Tre diversi spettacoli visti di recente contengono inquietanti riferimenti al suicidio: sarà solo un caso? – Quando un artista è tale il suo teatro può essere fatto di nulla. Eccone la prova – Renato Palazzi
A casa Testori, a Novate Milanese, si può attualmente visitare la meravigliosa mostra di quadri di William Congdon, il pittore americano compagno di strada di Jackson Pollock e Mark Rothko, che negli ultimi anni della sua vita si dette a dipingere paesaggi lombardi, campi coltivati, risaie. Alla Casa Museo di Pirandello, a Roma, si può seguire un ciclo di letture – Orbite, traiettorie, frequenze – dai Taccuini dello scrittore, appunti e spunti di ricerca fonolinguistica incrociati con brani di alcuni suoi testi teatrali, con la partecipazione di due attori, una cantante-arpista e una danzatrice. A Casarsa della Delizia, nella casa della famiglia materna di Pasolini, ha sede un Centro Studi che promuove senza sosta esposizioni fotografiche, concerti, pubblicazioni. Come sono vive, le abitazioni di questi artisti morti! Come è importante questa idea di onorarne la memoria non con spirito celebrativo, ma continuando a ideare iniziative culturali in loro nome.
In Due donne che ballano le protagoniste, un’anziana signora e la sua badante, alla fine decidono di porre termine alla propria vita ingerendo insieme un’overdose di farmaci. In Per strada, il testo di Francesco Brandi allestito al Teatro Franco Parenti da Raphael Tobia Vogel, ci sono due giovani che si incontrano: uno di loro va in giro fornito di un kit per spararsi, l’altro, a sorpresa, ne farà uso davvero. In Animali da bar di Carrozzeria Orfeo (foto) c’è un rapinatore depresso che continua a tagliarsi (invano) le vene e un invisibile vecchio che chiede (forse non invano) di aiutarlo ad andarsene. Dopo il leggendario Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, in neanche un mese mi è capitato di vedere ben tre spettacoli in cui spicca il tema del suicidio: un po’ troppi per considerarlo un fenomeno del tutto casuale. Dobbiamo pensare che le pensionate greche raccontate da Markaris stiano facendo scuola, che questa idea di potersi dare una morte più o meno dolce stia diventando un’opzione diffusa nella nostra società?
Il ciclo di incontri in cui Vittorio Franceschi, per festeggiare l’ottantesimo compleanno ormai vicino (vedi i Post del 13 gennaio), ha letto pubblicamente all’Arena del Sole di Bologna una serie di sue commedie, una per sera, per un’intera settimana, interpretando da solo tutti i personaggi, ha ottenuto un successo che sarebbe stato difficile prevedere: la platea costantemente esaurita, una partecipazione incessante, calda, affettuosa, un pubblico di giovani (e un po’ meno giovani) che non ha mai fatto mancare il suo apporto di interesse e di curiosità, con una vaga punta di stupore. È ovviamente merito della straordinaria bravura dell’attore, che non ha bisogno di orpelli e di apparati scenici per far vivere un testo in tutte le sue sfumature. Ma è anche una riprova del fatto che uno spettacolo compiuto può essere bellissimo, però nulla vale l’intensità del teatro in fieri, un teatro fatto di niente, della sua capacità di evocare immagini allo stato nascente, non ancora fissate in una forma definita.