L’Arena di Verona non si è arresa al Covid e è corsa ai ripari con una programmazione lussuosa per le voci dispiegate e i programmi musicali presentati. Che hanno sconfitto così anche il terribile meteo che ha colpito la città– Davide Annachini.
Tra i tanti festival estivi l’Arena di Verona è quello che forse ha risentito più di tutti delle conseguenze della pandemia, vuoi per il drastico calo di turisti stranieri (zoccolo duro delle presenze areniane), vuoi per le restrizioni imposte dal Covid, con una massiccia riduzione dei posti a soli tremila rispetto agli abituali quindicimila e con le inevitabili limitazioni sceniche dovute ai distanziamenti. La soluzione è stata quella di liberare totalmente la platea dal pubblico e di riservarla alla sola orchestra, collocata su un’enorme pedana rossa, con i coristi alloggiati su una corolla di podi individuali lungo l’ellisse della cavea. Anche con questo allestimento non era comunque pensabile mettere in scena un’opera nel classico stile areniano e così si è optato per una serie di concerti-gala incentrati su grandi star del belcanto, con la finalità di conservare anche in epoca di emergenza la festa musicale e la spettacolarità tipiche di un festival unico al mondo.
In fatto di voci Cecilia Gasdia, sovrintendente della Fondazione Arena, ha dimostrato di non sbagliare mai un colpo e difatti i diversi appuntamenti di quest’anno sono stati una vetrina di cantanti tutti da ascoltare, sia famosi che emergenti. Ma proprio per il prestigio di queste presenze non sarebbe stato male optare, al posto della formula un po’ ripetitiva e prevedibile del gala, per quella dell’opera in forma di concerto, più interessante e appagante, cosa peraltro già prevista per l’inaugurazione del prossimo anno, con un’Aida senza scene diretta da Riccardo Muti.
Tra le diverse serate “a tema”, in cui hanno brillato le stelle di Netrebko, Meli, Nucci, Salsi, Alvarez e di tanti altri, si è segnalata quella dedicata a Rossini, con un soprano squisito per musicalità, virtuosismo e classe come Lisette Oropesa, un buffo intramontabile e tuttora insuperato come Alessandro Corbelli, un baritono di bella voce e stile come Mario Cassi, un mezzosoprano dal timbro intenso e dalla coloratura impeccabile come l’emergente Marina Viotti, un tenore spericolato come Levy Sekgapane e un basso elegante come Roberto Tagliavini, sotto direzione di Jader Bignamini. Un concerto che tra comico e serio ha portato nell’anfiteatro veronese la musica di Rossini, autore pressocché assente all’Arena, per intuibili ma non insormontabili equilibri sonori con la vastità dello spazio all’aperto.
Il clou di questa stagione denominata “Nel cuore della Musica” stava comunque nelle due serate finali affidate ad una storica star areniana, Placido Domingo, che nel lontano 1969 qui fece il suo debutto in Italia e che a questo teatro è sempre stato particolarmente affezionato. Tenore storico e ora baritono instancabile, nonostante la rispettabile età e l’incredibile longevità artistica, Domingo si è presentato a Verona come cantante e come direttore d’orchestra, a dimostrazione, più che di una versatilità fuori dal comune, della volontà di non mettere ancora la parola fine su una carriera già da tempo leggendaria. L’affetto immutato di un pubblico che conta più di tre generazioni di melomani sorvola quindi su certo affaticamento nella gestione dei fiati, tali da non compromettere comunque la seduzione del timbro di sempre – che anche da baritono ha mantenuto lo stesso colore del tenore di un tempo – e la classe, appassionata e nobilissima, del grande interprete. In un programma che da Verdi passava a Giordano, Domingo ha tenuto fede alla sua fama, con quella nitidezza della parola, quella cordialità del fraseggio e quella suadenza timbrica, che hanno trovato al momento dei bis la loro espressione più accattivante con alcune pagine strappapplausi di zarzuela. Gli ha dato risposta, sotto la direzione di Jordi Bernàcer, Saioa Hernandez, soprano che dopo i successi scaligeri si è imposta come una delle voci più interessanti d’oggi, per ampiezza, slancio, generosità. Ma in certi momenti del duetto di Traviata o nella celebre “Mamma morta” dello Chénier ha rivelato anche sensibilità, intimismo e una linea di canto in grado di piegarsi a sfumature luminose, che hanno fatto breccia sul pubblico.
Nella serata successiva, a cavallo tra il repertorio francese e pucciniano, Domingo è salito sul podio, dirigendo con misura, indugiando forse un po’ troppo nei tempi che richiedevano più nerbo ma cogliendo momenti suggestivi nei brani di grande abbandono sentimentale, come la struggente “Méditation” dalla Thaïs di Massenet o gli intermezzi della Carmen e di Manon Lescaut, in cui si è imposto come interprete di suggestiva sensibilità. Qui hanno monopolizzato il campo due mattatori come Vittorio Grigolo e Sonya Yoncheva, l’uno tenore consegnato a un pubblico popolare che valica i confini del teatro d’opera, l’altra soprano tra le numero uno del momento. Grigolo non ha smentito le aspettative con un canto sempre appassionato quanto capace di salire agli acuti e di piegarsi alle sfumature senza apparenti problemi, ma anche con quella gestualità guascona e strappacore che limita l’eleganza delle sue prestazioni, altrimenti rimarchevoli per la bellezza del timbro e la franchezza dell’esecuzione. La Yoncheva, con una vocalità brunita, ricca nelle sonorità e particolarmente suggestiva nelle mezzevoci, ha da parte sua confermato una rara sottigliezza espressiva, penetrante e sensuale, che ha reso le sue Juliette e Manon estremamente intriganti. Ma anche la sua Tosca e la sua Mimì – nel terzo atto dalla Bohème in cui ha brillato anche l’ottima coppia Davide Luciano e Mihaela Marcu – sono state due interpretazioni personali e fascinose, che hanno siglato i momenti migliori di questa serata conclusiva, arrivata indenne in porto tra i lampi di un tempo da tregenda, che in quei giorni ha sconvolto Verona graziandola solo nel suo cuore musicale.