Macbeth alla Scala. La prima opera della stagione della ripresa ( almeno auspicata). Clamori e glamour alla Premiere ambrosiana fissata anche dalla televisione. Ma è in teatro, dal vivo, che la qualità di un progetto musicale e teatrale si svela. Ce lo racconta il nostro– Davide Annachini
L’inaugurazione del Teatro alla Scala di Milano da qualche anno ha ripreso ad essere anche un evento televisivo, come già nelle leggendarie dirette degli anni Settanta, e se questo da un lato ha esteso anche ad un pubblico popolare e non necessariamente melomane l’appuntamento operistico più prestigioso dell’anno dall’altro ha restituito solo un’immagine parziale dello spettacolo reale.
La visione dal vivo del Macbeth di Verdi – con cui la Scala riportava un’opera in scena il 7 di dicembre dopo un anno bypassato a causa del Covid – ha sicuramente riabilitato l’impressione di una ripresa televisiva non sempre convincente, per quanto già pensata a livello registico per il piccolo schermo, come di un’esecuzione musicale spesso appiattita nei colori rispetto a quella autentica. Ne ha giovato soprattutto la direzione di Riccardo Chailly, che in teatro ha svelato tinte, accenti e sonorità quanto mai finalizzate a un’interpretazione di grande tensione e drammaticità, tanto nell’atmosfera sinistra di molte pagine solistiche quanto nelle imponenti scene corali, che soprattutto nei finali d’atto hanno avuto un impatto travolgente sul pubblico. E con l’apporto come sempre eccellente dell’orchestra e del coro scaligeri (quest’ultimo preparato da Alberto Malazzi), Chailly è riuscito a offrire una lettura dell’opera verdiana sempre vivida e pulsante, tenendo le fila di un’esecuzione che vocalmente sfoggiava forse il meglio dell’attuale panorama lirico.
Luca Salsi è non a caso il Macbeth del momento, molto giocato sull’imponenza vocale e sulla scolpitezza dell’accento, più rivolte alla solidità dell’uomo di potere che alla fragilità psicologica del perdente, in realtà l’aspetto più intrigante e suggestivo del personaggio scespiriano. Ma sicuramente la muscolosità del canto, la ricchezza del timbro, l’attenzione alla parola ne hanno fatto un protagonista di grande impatto e di sicura presa sul pubblico, che lo ha osannato alla fine dello spettacolo. Successo che ha salutato altrettanto calorosamente l’attesissima star di questa edizione, Anna Netrebko, ormai un’habituée del Sant’Ambrogio scaligero e nello specifico una Lady tutta da scoprire, in questo periodo di rapida ascesa ai ruoli più drammatici da parte del soprano russo. Voce travolgente tanto negli impetuosi fortissimi quanto nei soffici pianissimi, quella della Netrebko è una forza della natura, qui sontuosamente messa a servizio di un personaggio un po’ virago e un po’ schizofrenico, dominatrice del marito al punto da schiaffeggiarlo durante il delirante banchetto e vittima delle sue persecuzioni visionarie nel sonnambulismo, consumato sul cornicione di un grattacielo. Un’accoglienza familiare è stata riservata al Banco autorevole, affascinante e umano di Ildar Abdrazakov, basso dalla voce pastosissima e avvolgente, come anche al Macduff di Francesco Meli, tenore luminoso e coinvolgente per colore e fraseggio, soprattutto in parti preferibilmente liriche come questa. Incisivo e squillante il Malcolm di Yvan Ayon Rivas, solidissima la Dama di Chiara Isotton, ottimo il Medico di Andrea Pellegrini, segnalabili nel contesto degli interpreti di fianco, che elencavano anche il domestico di Leonardo Galeazzi, il sicario di Guillermo Bussolini, le apparizioni di Costantino Finucci, Giovanni Crisostomo e Rebecca Luoni.
Se lo spettacolo di Davide Livermore poteva apparire in televisione un tripudio di citazioni cinematografiche e di proiezioni virtuali, in teatro risultava più temperato e meno invasivo nella sua calligrafica insistenza di puntare su soluzioni più a effetto che risolutive, come il perenne corredo di sigaretta e whisky per Lady Macbeth o l’ossessivo saliscendi di un ascensore a gabbia, autentico quanto discutibile tormentone di questa regia, per altro soggetto a qualche clamoroso incidente nel corso delle recite.
Ma al solito l’horror vacui tipico delle regie di Livermore – dalle proiezioni incessanti e fluviali di D-Wok, dalla dubbia coerenza stilistica tra le scene di ispirazione déco di Giò Forma e i costumi non meglio databili (oltre che di gusto opinabile, soprattutto nel caso di Lady) di Gianluca Falaschi, dalle luci di Antonio Castro – tendeva ad imporre una lettura fine a se stessa prima ancora che a servizio della musica verdiana. Da qui l’ambientazione nella malavita di una plausibile New York, siglata da grattacieli e catastrofi incombenti come da gangster armati di spada e da streghe in vesti di segretarie scoppiate e sottoposte a contorsioni spasmodiche (con la partecipazione straordinaria della stessa Netrebko) nelle coreografie a firma di Daniel Ezralow.
Le contestazioni della prima non hanno avuto replica in assenza dei responsabili dello spettacolo, mentre per la componente musicale il successo è stato unanime e festosissimo.
Le foto della gallery e dell’apertura sono di Brescia-Amisano –courtesy Teatro alla Scala