La Rondine di Puccini torna a volare a Verona

Bella riproposta al Teatro Filarmonico di Verona della Rondine, titolo desueto di Puccini scelto per ricordarne il centenario della morte. Un’occasione di qualità – con una splendida protagonista come Mariangela Sicilia – per rivalutare un lavoro spesso bollato spregiativamente come operetta ma su cui ricredersi con non poche sorprese. Davide Annachini

Per il centenario della morte di Giacomo Puccini tutti i teatri si sono attivati nell’inserire in cartellone qualche sua opera, ma, dato che la cosa non costituisce di per sé una novità per il fatto di riguardare uno degli autori più rappresentati al mondo, la scelta è caduta di preferenza sui suoi pochi titoli meno frequentati. In primis La Rondine, che a differenza dei lavori giovanili – come Le Villi ed Edgar – è opera della maturità ma storicamente relegata anch’essa alla produzione “minore” di Puccini. Il fatto di essere stata commissionata originariamente da Vienna come operetta e poi rappresentata in piena guerra (1917) in un contesto defilato e neutrale come l’Opéra di Montecarlo, teatro fastoso quanto di piccole dimensioni, portò probabilmente il compositore a pensare ad un’opera quasi da camera, in cui sperimentare generi diversi e soluzioni nuove, come l’uso del parlato nelle parti recitate (tipico in effetti dell’operetta), l’adozione di ritmi di danza in voga all’epoca (dai classici valzer, polka, tango ai più recenti fox trot, one step, slow fox), la scansione meno prevedibile dei numeri musicali, che forse non riuscì a garantire unità ed equilibrio al lavoro, soprattutto in quello zoppicante terzo atto su cui Puccini tornò per ben altre due volte, arrendendosi poi con un giudizio senza possibilità di appello  come “La rondine è una solenne porcheria”.

In realtà, per quanto non abbia mai lasciato un segno nelle rare riprese teatrali, la Rondine è opera da rivalutare e, senza azzardare confronti, da apprezzare per le non poche qualità. Come sempre Puccini incentra la sua attenzione su una figura femminile, in questo caso una mantenuta d’alto bordo, Magda, che – come una novella Violetta Valéry – viene colpita da un sentimento puro per il giovane e ingenuo Ruggero, durante una sua scorribanda sotto false spoglie in un locale notturno della Parigi Secondo Impero, dove incontrerà persino la cameriera Lisette agghindata con una mise della padrona (e qui il riferimento a un’operetta come il Pipistrello di Strauss è evidente). La redentrice storia d’amore si infrangerà al momento in cui Magda realizzerà che di storia seria si tratta, con tanto di proposta di matrimonio da parte di Ruggero, benedetta persino dalla madre di lui, e con la prospettiva di un futuro in un desolante paesino di provincia. Davanti a questa scelta Magda preferirà volare di corsa alla vita dorata di prima, come una rondine, rivelandosi così la prima eroina da melodramma in grado di decidere da sé, forse cinicamente ma con il coraggio di affrancarsi dal cliché di vittima sacrificale caro al Romanticismo del secolo precedente. Una protagonista moderna, quindi, in un contesto volutamente aggiornato nelle originali scelte musicali di Puccini, che coglie comunque i suoi momenti più coinvolgenti nell’infallibile lirismo di alcune pagine, prima tra tutte “Chi il bel sogno di Doretta”, aria sopravvissuta all’oblio dell’opera.

La Fondazione Arena di Verona, in anticipo anche sulla Scala, ha riproposto l’opera al Teatro Filarmonico in un’edizione particolarmente riuscita, che è stata in grado di dimostrare come la qualità esecutiva pesi più che altrove sulla riabilitazione di un lavoro di per sé fragile. Il punto di forza – come al solito nelle scelte della sovrintendente Cecilia Gasdia – è stato il cast, dominato da una splendida protagonista come Mariangela Sicilia (futura Magda anche a Milano), soprano di bella voce e bella presenza, che grazie a un canto raffinatissimo, dai pianissimi incantevoli (splendida la “messa di voce” sull’acuto finale) e dalla sensibilità squisitamente lirica, ha delineato un personaggio sentimentale quanto disincantato, seducente quanto umano. Ma bravissimi sono stati anche il Ruggero dalla solare vocalità tenorile di Galeano Salas, la pungente Lisette di Eleonora Bellocci, il vivido Prunier di Matteo Roma, l’austero Rambaldo di Gëzim Myshketa, insieme a tutti gli interpreti delle parti di fianco, Amelie Hois, Sara Rossini, Marta Pluda, Gillen Munguia, Renzo Ran, Carlo Feola.

Alla direzione dell’orchestra e del coro (preparato ottimamente da Roberto Gabbiani) della Fondazione Arena, Alvise Casellati è riuscito ad esaltare la raffinata scrittura strumentale pucciniana, sostenendo con convinzione e tenuta l’apparente discontinuità della partitura, valorizzata nelle sue effettive qualità quanto nei momenti meno risolti con felicità narrativa.

Decisivo poi lo spettacolo firmato da Stefano Vizioli, ambientato in una Parigi anni Quaranta/Cinquanta dai salotti di lusso dominati dai nudi sensuali di Modigliani, come dai locali notturni cari agli esistenzialisti (scene suggestive di Cristian Taraborrelli, costumi raffinati di Angela Buscemi, luci di Vincenzo Raponi) e dalle danze nel più sfrenato stile francese del secondo dopoguerra (coreografie di Pierluigi Vanelli). Una messinscena intelligente per la felicità delle citazioni visive come per la cura della recitazione e della definizione dei diversi interpreti, tutti scenicamente bravissimi.

Il pubblico, forse non numeroso quanto l’occasione avrebbe meritato, ha risposto però con grande entusiasmo, cosa quasi sorprendente per un’opera pressoché sconosciuta, dimostrando di ritrovare nei momenti clou la vena inconfondibile del grande Puccini.

Visto il 18 febbraio al Teatro Filarmonico di Verona