Il cavallo di Battaglia del Festival Verdi di Parma

All’insegna del cavallo, come simbolo di eroismo e morte in guerra, è andata in scena al Regio di Parma una pregevole edizione della Battaglia di Legnano, opera risorgimentale di rara frequentazione e punto di forza del Festival Verdi 2024. Davide Annachini

Il Festival Verdi di Parma 2024 si è concluso con un meritato successo di pubblico italiano e straniero, grazie ad un programma che quest’anno ha spaziato dal Teatro Regio a quelli di Busseto e Fidenza con un piatto molto ricco, fatto di quattro opere particolarmente impegnative (Macbeth nella versione francese del 1865, La Battaglia di Legnano, Un ballo in maschera, Attila), concerti e appuntamenti di genere vario, tesi a dar vita nell’arco di un mese ad un’autentica festa musicale nel nome di Verdi.

La battaglia di Legnano si proponeva come il titolo più atteso insieme al Macbeth francese – che era già stato eseguito nel 2020 ma in forma di concerto e all’aperto, causa Covid – per il fatto di essere uno dei meno rappresentati del catalogo verdiano. Opera ancora appartenente ai cosiddetti “anni di galera” – che si sarebbero di lì a poco conclusi con la celebre Trilogia popolare, autentica linea di spartiacque tra il giovane Verdi e quello della maturità – la Battaglia di Legnano ha in sé tutti i connotati risorgimentali che avevano eletto l’autore come un emblema del patriottismo già ai tempi del Nabucco e che in quel 1849 erano più che mai sentiti. Non a caso l’opera – che pur nella veste medievale inneggiava scopertamente a “Viva Italia” come mai era successo prima e che sulla piazza romana ebbe modo di debuttare senza gli inevitabili interventi della censura – si ispirava alla storica Lega lombarda e alla strenua opposizione al Barbarossa, nell’attingere però il sentimento di ribellione dalle recenti cinque giornate di Milano.

Come in quasi tutto il Verdi “di galera” il dramma si brucia con ritmi incalzanti, certe volte quasi brutali, tra cori e inni patriottici, ma anche con un triangolo amoroso che mette in discussione l’amicizia e il matrimonio, a preludio di quanto avverrà in seguito nel Ballo in maschera, e con colpi di scena da autentico melodramma romantico – come quando il protagonista si lancia addirittura dal verone pur di correre al campo di battaglia – in cui il modello degli Huguenots di Meyerbeer è evidente e quello della “pira” del Trovatore è lì lì per arrivare. Ugualmente Verdi, pur nell’urgenza dell’azione, sa cogliere momenti di indiscutibile suggestione, vuoi intimi vuoi appassionati, come risolvere con teatralità infallibile una storia tagliata un po’ con l’accetta dal fido librettista Cammarano. E, anche se a livello musicale non è possibile ritrovare la superba ispirazione di altre famose melodie verdiane, è pur vero che l’opera presenta una sua identità ben precisa e di sicuro coinvolgimento sul pubblico pur nella sua stringata brevità.

Difficile darne però un’esecuzione risolutiva, sia per i toni prevalentemente altisonanti che concedono poco spazio ai momenti riflessivi, sia per la scrittura impegnativa riservata come al solito alle voci. A Parma comunque il risultato è stato ottimo, a partire da un direttore come Diego Ceretta, che per quanto giovanissimo ha dimostrato di sapere il fatto suo, con una lettura infiammata ma leggera, vibrante e al tempo stesso elegante, teatralissima e all’occorrenza intima, che ha trovato felice rispondenza nell’Orchestra e nel Coro del Teatro Comunale di Bologna (quest’ultimo preparato da Gea Garatti Ansini), coproduttore dello spettacolo, e in un terzetto protagonistico assolutamente all’altezza. Presenza di lusso era sicuramente Marina Rebeka, cantante in grado di risolvere una parte quanto mai ardua per scrittura tesissima ma ancora belcantistica, dagli improvvisi scarti ai do acuti scoperti e dalla cifra espressiva dolente e tutt’altro che pugnace rispetto alle eroine del primo Verdi. Il soprano lettone l’ha dominata con nonchalance nei passaggi più insidiosi, con una franchezza vocale ammirevole e con una sensibilità d’interprete in grado di dare spessore a un personaggio come quello di Lida, più difficile che appagante nella sua indole tendenzialmente remissiva. La parte protagonistica di Arrigo, che combatte-ama-muore, era affidata ad Antonio Poli, tenore di bel colore lirico, di luminosa espansione vocale, di nitido fraseggio, complessivamente indicato per un ruolo eroico come questo, che solo in zona acuta lo ha trovato talvolta in leggera tensione. Vladimir Stoyanov, baritono di consumata esperienza verdiana è stato un autorevole Rolando, elegante nel canto, incisivo nel fraseggio, sensibile nell’espressione, mentre, insieme al valido Barbarossa di Riccardo Fassi e al Marcovaldo di Alessio Verna, si sono messi più o meno in luce gli allievi dell’Accademia Verdiana nei ruoli minori.

Lo spettacolo a firma di Valentina Carrasco per la regia e di Margherita Palli per l’impianto visivo (costumi di Silvia Aymonino, luci di Marco Filibeck) viveva di atmosfere indefinite e di grande cupezza, privilegiando l’immagine del cavallo come emblema di guerra ma anche di sofferenza e di morte. E questi manichini di destrieri diventavano – come nelle famose battaglie dipinte da Paolo Uccello – protagonisti e al tempo stesso scenografia, all’interno di una messinscena che sembrava quasi relegare i cantanti – vestiti in abiti moderni non sempre irresistibili, come la minigonna di pelle e veli indossata dalla povera Rebeka al primo atto – a un ruolo invece coprotagonistico.

Molto caloroso il riscontro del pubblico al Teatro Regio, a suggello di una rassegna ancora una volta amatissima dai verdiani di lunga militanza.

 

Visto al Festival Verdi di Parma il 20 ottobre.

 

 

 

 

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