Edizione memorabile del Rosenkavalier alla Scala di Milano, grazie alla direzione travolgente di Kirill Petrenko, artefice di una lettura inedita e rapinosa del capolavoro di Richard Strauss, da elencare tra i maggiori successi di stagione. Davide Annachini
Der Rosenkavalier di Richard Strauss si è sicuramente imposto come una delle punte della stagione 2023/24 del Teatro alla Scala di Milano, nel presentare a otto anni dall’ultima edizione – seppure con lo stesso allestimento e con due dei protagonisti di allora – un’interpretazione memorabile, osannatissima dal pubblico. Da sempre il capolavoro straussiano costituisce un banco di prova per i più grandi direttori d’orchestra e già alla Scala – teatro tra i primissimi a mettere in scena l’opera nel 1911, a un mese dal suo debutto a Dresda – solo i nomi di un Karajan o di un Kleiber figlio basterebbero a individuarne due dei massimi interpreti storici. La superba orchestrazione, la cangiante teatralità, altalenante tra sentimento e parodia, la sublimazione della scrittura vocale, che fa un tutt’uno della musica eterea di Strauss e del testo analitico di Hofmannsthal, la complessità psicologica dei personaggi – in primis quello crepuscolare e aristocratico della Marescialla – sono peculiarità intriganti quanto ambiziose con le quali solo un grande maestro può misurarsi. Per questo, se in area tedesca Der Rosenkavalier può giustamente rientrare nel repertorio di tradizione gestito anche dall’onesta routine dei kappelmeister, altrove – come in Italia – le sue isolate riproposte acquistano immediatamente l’allure dell’occasione importante, come importante deve essere il direttore a cui affidare l’esecuzione.
La Scala l’ha consegnata in mani eccellenti come quelle di Kirill Petrenko, attuale direttore principale dei Berliner Philharmoniker e bacchetta tra le più accreditate a livello mondiale, assicurandosi già in partenza un’edizione dai presupposti d’eccezione. E così è stato, grazie alla lettura che il maestro russo ha offerto di una partitura tanto complessa, risolta, con sonorità di volta in volta smaglianti, preziose, sospese, da un’Orchestra della Scala galvanizzata e trasportata ai suoi massimi livelli di qualità. Infiniti sono stati i momenti e i particolari memorabili di questa esecuzione, dagli struggenti finali del primo e ultimo atto alla magica scena della presentazione della rosa, per arrivare alla travolgente souplesse con cui è stata risolta l’Introduzione-Pantomima al terzo atto. Ma è soprattutto la cifra interpretativa di Petrenko ad aver colpito: lontano dai raffinati decadentismi di Karajan o dagli incanti supremi di Kleiber, il suo è stato un Rosenkavalier vitalissimo, trascinante, sentimentale, in cui gli stessi personaggi hanno perso certa astratta stilizzazione a favore di un calore più autentico e umano.
A questa superba interpretazione di Petrenko – accolto da ovazioni ad ogni suo ingresso in orchestra – ha risposto un cast in cui spiccava soprattutto il terzetto femminile. Krassimira Stoyanova – già Marescialla nell’edizione scaligera del 2016 – oltre ad apparire più in forma del solito vocalmente, ha delineato una protagonista suadente e melanconica, molto credibile scenicamente come donna consapevole del tramonto della sua giovinezza e del nobile ritiro dalle competizioni amorose. Kate Lindsey ha restituito un Octavian appassionato nel canto e nell’espressione quanto elegante e credibile nella figura, mentre Sabine Devieilhe è stata una Sophie incantevole per la linea vocale, delicatissima e preziosa, e per la presenza di ineffabile finezza. Meno convincente invece l’Ochs di Günther Groissböck, collaudato interprete del barone gradasso e credulone, che qui ha mostrato però diversi limiti in alto, dove le note fisse e tutt’altro che impeccabili si sono ripetute, come in quelle profondità a cui spesso Strauss spinge la voce del basso. Pregevole il Faninal di Michael Kraus e validi tutti gli interpreti dei ruoli di fianco, con particolare menzione per Caroline Wenborne (Marianne), Tanja Ariane Baumgartner (Annina), Gerhard Siegel (Valzacchi) e soprattutto per Piero Pretti, un Tenore italiano quanto mai autentico per colore e squillo, tanto più in una parte insidiosa per l’acutissima tessitura. Ottimi il coro scaligero e le voci bianche dell’Accademia della Scala, preparati rispettivamente da Alberto Malazzi e Marco De Gaspari.
Lo spettacolo di Harry Kupfer – una coproduzione con il Festival di Salisburgo – viveva soprattutto sulla bellezza di alcuni fondali dalle architetture incombenti e dai paesaggi romantici (scene di Hans Schavernoch, video di Thomas Reimer), sull’eleganza misurata dei costumi (di Yan Tax) e sulle atmosfere suggestive (luci di Juergen Hoffman), in grado di restituire una cornice tersa e stilizzata, tra superfici specchianti e accenni rococò. Da segnalare alcuni momenti di grande impatto visivo – come la magica apparizione del Cavaliere della rosa sulla grande scalinata – , la felice gestione delle masse e la narrazione teatrale sempre fluida e comunicativa, in piena sintonia con la splendida musica di Strauss e il raffinato libretto di Hofmannsthal.
Successo trionfale, come nelle migliori memorie scaligere.
Visto al Teatro alla Scala di Milano il 22 ottobre.