Felicissima riproposta al Donizetti Opera di Bergamo di un capolavoro recuperato come Roberto Devereux grazie a un’eccellente edizione, dominata dall’inedita Elisabetta I di Jessica Pratt e siglata dallo spettacolo suggestivo di Stephen Langridge. Davide Annachini
Se solitamente si fa riferimento all’Anna Bolena scaligera del 1957 (Callas-Visconti-Gavazzeni) per parlare di Donizetti-Renaissance, è pur vero che la febbrile riscoperta negli ultimi decenni del Novecento dell’enorme repertorio del musicista bergamasco prese il via ancor più con la prima riproposta moderna del Roberto Devereux, nel 1964 a Napoli, protagonista una Leyla Gencer destinata a divenire la paladina di questo esaltante recupero filologico. Tra le tante sorprese tornate alla luce che – come poi per Rossini – riabilitarono la figura di un compositore ricordato quasi solo per Lucia, Elisir, Don Pasquale, il Devereux rappresentò l’autentica perla, nel rivelare un Donizetti ispiratissimo, teatralmente incisivo e intensamente tragico nella restituzione psicologica di una delle sue indimenticabili eroine, Elisabetta I d’Inghilterra, colta nell’inquietudine di regina tradita dai suoi fedelissimi e di donna ferita nell’amore non ricambiato per il giovane favorito Conte d’Essex, vittima alla fine della sua collerica gelosia.
Entrato ormai a far parte del repertorio insieme a tanti altri melodrammi seri – e in particolare a quelli della cosiddetta Trilogia Tudor, come Anna Bolena e Maria Stuarda – Roberto Devereux ha inaugurato con grande successo il Donizetti Opera di Bergamo (che prevede in cartellone anche Zoraide di Granata e Don Pasquale), in un’edizione da ricordare per il felicissimo spirito esecutivo e per l’efficacia del nuovo allestimento, che ne hanno esaltato la potenzialità drammatica grazie anche al recupero dell’originale versione napoletana del 1837, più asciutta e scolpita a livello drammaturgico rispetto a quella leggermente modificata l’anno dopo per Parigi dallo stesso autore.
Sicuramente questa scelta del direttore musicale del festival Riccardo Frizza si è riverberata anche sulla sua interpretazione, in un taglio esecutivo serrato, incalzante, di grande impatto tragico, che non ha però dimenticato quelle oasi di puro lirismo e di estatico abbandono espresse nelle famose “cantilene” donizettiane, all’interno di una direzione quindi cangiante nei repentini cambi climatici ma sempre in tensione nella narrazione, perfettamente assecondata dagli interpreti vocali e dall’Orchestra Donizetti Opera, insieme al Coro dell’Accademia Teatro alla Scala preparato da Salvo Sgrò.
Per un soprano come Jessica Pratt, specialista del belcanto nei più svariati ruoli lirici, quello di Elisabetta si poneva non solo come un debutto importante ma come un autentico cambio di rotta verso parti più drammatiche, quali la recente Alaide della Straniera e le future Norma e Lucrezia Borgia stanno a dimostrare. Voce acutissima ma di espansione lirica, la Pratt ha dimostrato grande intelligenza nell’adeguarsi alla scrittura prevalentemente medio-grave e spinta del ruolo senza mai forzare, esibendo un inedito registro di petto piuttosto naturale anche se inevitabilmente marcato rispetto al resto della voce, penetrante ma sempre più chiara e leggera nel salire al registro sovracuto, dove comunque la sicurezza e la brillantezza dei suoi re e mi naturali si sono fatte valere sopra coro e orchestra con effetto impressionante. Ma soprattutto è stata la finezza della sua interpretazione a colpire, così filtrata nei fraseggi e nelle invettive – mai portati sopra le righe ma sempre giocati sull’intenzione della parola – da delineare un ritratto soggiogante di Elisabetta, regina imperiosa quanto solitaria ma soprattutto donna marcata dall’infelicità di un’esistenza senza amore.
Il successo personale della Pratt ha avuto un corrispettivo nel Roberto d’eccezione di John Osborn, tenore insuperabile nei ruoli più proibitivi del primo Ottocento, per la capacità di padroneggiare tessiture acutissime, di modulare i suoni come nessun altro al mondo, di avere una coscienza profonda dello stile belcantistico, come ha dimostrato l’esecuzione da manuale della sua aria del carcere, sfumatissima nel canto e struggente nell’espressione, ma anche la nobiltà, eroica e accorata al tempo stesso, con cui ha delineato tutto il personaggio del Conte di Essex. Che poi due fuoriclasse di questo calibro non abbiano ancora accesso alla Scala resta uno dei misteri della politica dei nostri teatri, in cui quelli minori spesso riescono a dare punti a quelli maggiori, facendo valere la competenza piuttosto che le agenzie.
Il cast presentava altri due interpreti azzeccatissimi, come Raffaella Lupinacci – voce vibrante di mezzosoprano, che ha dato vita a un’intensa e appassionata Sara, dilaniata dalla colpa (qui addirittura sottolineata dalla regia con un pancione da gravida) per il fatto di amare Roberto e di tradire il marito e la regina – e come Simone Piazzola, baritono che per eleganza vocale, nobiltà di stile e slancio espressivo si è riconfermato quanto mai ideale per Donizetti, come il suo Nottingham, fiero, generoso ma alla fine vendicativo ha dimostrato pienamente. Validi per finire David Astorga (Cecil), Ignas Melnikas (Raleigh), Fulvio Valenti (un familiare di Nottingham), che hanno affiancato l’applauditissimo quartetto principale.
Lo spettacolo a firma di Stephen Langridge – figlio dell’indimenticabile tenore Philip – si è imposto per nitidezza e stilizzazione, grazie alle scene e ai costumi di Katie Davenport, dagli stalli neri di gusto elisabettiano a cui si affacciava il coro – incombente osservatore del privato dei protagonisti e giudice vigile come in un tribunale – e dagli arredi siglati di rosso e di morte, con l’ossessiva presenza dei teschi anche nelle vesti di Elisabetta o nel suo scheletrico fantasma. Suggestivo l’uso delle luci (di Peter Mumford), con una grande cornice abbagliante che impediva la percezione dei cambi a vista e con l’improvvisa apparizione dal buio dei personaggi, ai quali il regista – da buon inglese – ha dato il massimo rilievo nella recitazione accuratissima.
Calorosissimo successo finale, con punte di entusiasmo per la Pratt e Osborn.
Visto il 12 novembre al Teatro Donizetti di Bergamo