Elektra convince a Verona, anche in formato ridotto

All’interno di un cartellone tutt’altro che popolare e complementare a quello dell’Arena, il Filarmonico di Verona ha presentato in prima italiana l’Elektra di Strauss in una ridotta versione orchestrale, destinata a teatri di medie dimensioni. Davide Annachini

Dopo l’inaugurazione con il rarissimo Falstaff di Salieri, il Teatro Filarmonico di Verona non ha certo puntato a titoli meno desueti, insistendo su opere poco battute per il repertorio di tradizione e per il pubblico locale. La scelta della sovrintendente Cecilia Gasdia guardava giustamente a proporre un cartellone alternativo a quello popolarissimo dell’Arena, controbilanciando l’offerta per la stagione al chiuso con una programmazione più ricercata, inusuale e stimolante, anche a costo di sopportare un’iniziale difficoltà da parte del pubblico nel rispondere alle novità, progressivamente risolta però con maggiore affluenza e grande successo.

Così, dopo il recupero di un’opera a suo tempo conosciuta come La Wally di Catalani – raffinato emblema della Scapigliatura di fine Ottocento, qui proposta in una pregevole edizione diretta con grande sensibilità da Antonio Pirolli, con un solido cast (Eunhee Maggio, Carlo Ventre, Gabriele Sagona) e con uno spettacolo di apprezzabile funzionalità e nitidezza firmato da Nicola Berloffa -, la scelta è caduta sull’Elektra di Richard Strauss, capolavoro dell’Espressionismo di primo Novecento, assente da più di vent’anni dalle scene del Filarmonico, dall’unica rappresentazione veronese del 2003. L’occasione si segnalava per la prima esecuzione in Italia della versione orchestrale curata per Casa Ricordi da Richard Dünser, rivista per un organico ridotto rispetto a quello imponente previsto dall’autore – di oltre centoventi elementi – a favore dei teatri di medie dimensioni, come nell’Ottocento era uso fare per molte grandi opere, Aida in primis.

In effetti proprio l’esecuzione orchestrale è stata l’elemento d’interesse in questa edizione veronese di Elektra, partitura di grande impatto strumentale, così violento e debordante nel restituire tutto l’orrore e il dolore sovrannaturali che fanno da sigla alla tragedia epica di Hofmannsthal, in cui si consuma la vendetta dei figli di Agamennone nei confronti dell’uxoricida Clitennestra. Ma la violenza fonica deve sempre restare suono, compatto e controllato, soprattutto in un autore così raffinato come Strauss, che non concede spazio alle sbavature e alla ruvidezza strumentale nemmeno nei momenti più drammatici e che d’altro lato richiede trasparenze e finezze calibratissime in quelli più intimi e commoventi.

La direzione di Michael Balke ha avuto il merito di ottenere una qualità sonora e un rigore strumentale dall’Orchestra dell’Arena in grado di sostenere la tensione così serrata dell’opera con grande risalto e forza drammatica, in un disegno interpretativo accesissimo ma anche attento alle sfumature espressive. Gli hanno dato man forte il coro preparato da Roberto Gabbiani e un cast di solida tenuta vocale, che nel caso specifico doveva rispondere per lo più a un canto spasmodico, sfiancante e costantemente in lotta con le bordate orchestrali. Lise Lindstrom sotto questo aspetto ha onorato la parte della protagonista con voce ampia, sicura nelle tensioni acute e, al di là di una sensibile stanchezza finale percepibile nel vibrato di alcune emissioni, sempre vivida nella restituzione di un’Elettra meno barbarica e più umana del solito. Come Crisotemi il soprano Soula Parassidis ha messo in evidenza una vocalità di grande potenza, forse talvolta un po’ forzata e soprattutto non troppo distinta da quella di Elettra, come richiederebbe il contrasto vocale-psicologico tra le due sorelle, mentre Anna Maria Chiuri è stata una Clitennestra vocalmente intensa, autorevole e senza tentazioni di gusto espressionista, in coerenza con la visione registica riportata a una dimensione novecentesca. Thomas Tatzl ha delineato un severo Oreste con il suo morbido timbro baritonale, il tenore Peter Tantsits ha tratteggiato un Egisto viscido ma ugualmente senza forzature espressive sopra le righe e valido si è rivelato tutto il contorno delle ancelle e dei personaggi minori.

La regia del giovane Yamal das Irmich (scene di Alessia Colosso, costumi di Eleonora Nascimbeni, luci di Fiammetta Baldiserri) trasportava il mito alla dimensione borghese di un dramma moderno, collocato tra la fine dell’Impero austro-ungarico e l’avvento di quello nazista, ispirandosi al periodo di composizione dell’opera (1909), già in odore della Grande Guerra e indicato a suggerire il crollo di una civiltà a favore di una nuova, ugualmente assolutista e spietata. Tra citazioni cinematografiche attinte da Cabaret o dal Crepuscolo degli dei, con una definizione dei personaggi lontana dalla visceralità sanguigna per quanto a suo modo caratterizzata e con una teatralità meno esasperata e più sobriamente contemporanea, lo spettacolo ha rivelato una sua cifra intrigante e – al di là di alcune soluzioni più o meno felici – a suo modo plausibile.

Calorosissimo il successo di pubblico, a conferma di un’operazione pienamente azzeccata.

 

Visto al Teatro Filarmonico di Verona il 23 marzo.

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