Edizione dal taglio severo e cupo per l’Otello parmigiano a firma Abbado-Tiezzi, opera inaugurale del festival verdiano dedicato a Shakespeare. Davide Annachini
Il Festival Verdi di Parma di quest’anno si fregiava del nome di Shakespeare, con un cartellone incentrato sulle tre opere ispirate ai suoi lavori – Otello, Falstaff e Macbeth (nella versione originale del 1847) – che insieme ai numerosi concerti e appuntamenti sul territorio hanno dato vita a una rassegna come sempre vitalissima e di qualità.
Sicuramente sull’Otello inaugurale erano focalizzate le maggiori attenzioni, per l’interesse del cast e della produzione, al di là dell’importanza del titolo stesso, da sempre campo di battaglia per fuoriclasse verdiani. In effetti come potrebbero essere Norma per i soprani o Boris per i bassi, Carmen per i mezzosoprani o Rigoletto per i baritoni, Otello rappresenta il sogno proibito di tutti i tenori drammatici, tanto da aver demotivato nel passato potenziali interpreti di riferimento – come Caruso e Corelli – per l’enorme responsabilità vocale e interpretativa del ruolo. Ma non è che avendo a disposizione un tenore all’altezza i giochi siano già fatti, dato che il terzetto protagonistico pretende un baritono finissimo sotto il profilo espressivo-vocale per Jago e un soprano di limpido lirismo per Desdemona, oltre naturalmente a un direttore di grande autorevolezza e a un regista in grado di confrontarsi con due giganti come Verdi e Shakespeare. Non a caso nei venticinque anni del festival questa era solo la seconda volta che Otello tornava sulle scene del Teatro Regio, a dieci anni dall’ultima edizione.
Per quanto programmata con tutte le carte in regola, la nuova produzione parmigiana già alla seconda recita si è trovata a fare i conti con i classici imprevisti del teatro dal vivo, nel qual caso l’indisposizione addirittura dello stesso protagonista, Fabio Sartori, tenore verdiano collaudatissimo e valido interprete di Otello alla prima. Per risolvere l’emergenza, il festival ha estratto il suo asso dalla manica chiamando Yusif Eyvazov, cantante di tutt’altra pasta e sensibilità ma quanto mai interessante da valutare in una parte così estrema, affrontata per di più senza possibilità di prove. Il tenore azero anche in quest’occasione ha confermato una qualità artistica che, per quanto già maturata nell’ultimo Verdi, qui ha avuto quasi l’impatto di una rivelazione, per la padronanza dimostrata in una parte così complessa dalla prima all’ultima nota. La franchezza vocale e lo slancio scenico del suo “Esultate” (ingresso temuto da tutti i tenori per la scrittura acuta e spasmodica), il vigore vendicativo delle invettive “Ora e per sempre addio” e “Sì, pel ciel marmoreo”, come il lacerato intimismo dei monologhi “Dio! mi potevi scagliar” e “Niun mi tema”, hanno rivelato non solo un cantante solidissimo – al di là delle note disuguaglianze timbriche, che qui però sembravano quasi servire idealmente la “diversità” del Moro – ma soprattutto un interprete completo, nel fraseggio quanto nella restituzione scenica del personaggio.
Al suo fianco ha brillato la Desdemona di Mariangela Sicilia, soprano all’apice delle sue squisite qualità liriche – voce rotonda e luminosa, piani e pianissimi incantevoli, acuti sfolgoranti – che, unite a una sensibilità espressiva intensa e mai manierata, hanno fatto di lei un’interprete ideale per una parte dove la limpidezza vocale si identifica con quella del personaggio, mentre il fraseggio incisivo ne ha riscattato l’abituale passività, restituendo un carattere fiero molto più vicino al modello scespiriano. Dopo la felicissima partecipazione alla Giovanna d’Arco della scorsa stagione del Regio, si aspettava una verifica dal baritono Ariunbaatar Ganbaatar, che come Jago ha confermato una vocalità ampia e sorretta da una linea di canto timbrata in tutta l’estensione, svettante e capace di piegarsi alle mezzevoci. In un ruolo così giocato sulla parola e sulle intenzioni, il cantante della lontana Mongolia ha mostrato chiarezza di dizione, attenzione alle sfumature richieste da Verdi, autorevolezza interpretativa. Il fraseggio con il tempo potrà diventare ancora più insinuante e persuasivo, soprattutto in una parte così complessa e inafferrabile come questa, ma di sicuro il baritono in grado di poter servire il repertorio verdiano c’è già, come è sembrato confermare anche il successo di pubblico che ha siglato la sua prestazione. Ottime le parti di fianco, a partire dalla vibrante Emilia di Natalia Gavrilan, dall’elegante Cassio di Davide Tuscano, dal timbrato Lodovico di Francesco Leone, dal penetrante Roderigo di Francesco Pittari per arrivare al Montano di Alessio Verna e all’Araldo di Cesare Lana.
La direzione musicale era nelle mani di Roberto Abbado, che ha tenuto le fila di un’opera di indubbia complessità esecutiva ed interpretativa con grande sicurezza, puntando a una lettura asciutta, nitida, severa, del tutto aliena da una teatralità enfaticamente melodrammatica e da una passionalità – ma anche da un sentimento – troppo esplicita. Questo taglio interpretativo – ben sostenuto dalla Filarmonica Arturo Toscanini e dal Coro del Teatro Regio preparato da Martino Faggiani (affiancato dalle voci bianche del Regio alla guida di Massimo Fiocchi Malaspina) – ha segnato la cifra di un’edizione affatto originale, nella proposta di un Otello in bianco e nero – per non dire quasi del tutto in nero – amaro e cupissimo, come lo era lo spettacolo firmato da Federico Tiezzi. Nella cornice plumbea e talvolta raggelante pensata da Margherita Palli – dai pochissimi elementi scenici, come le teche illuminate al neon con le sagome imbalsamate di animali feroci, dai costumi austeri di Giovanna Buzzi e dalle luci fredde di Gianni Pollini – la regia di Tiezzi ha avuto il merito di lasciare parlare la musica, focalizzando l’attenzione sulla psicologia dei personaggi e sulle loro relazioni, rapportate a un’ambientazione più borghese che storica. Se ne è avuta massima evidenza nella scena finale, collocata in una camera da letto angusta e quasi claustrofobica in cui si consumava la tragedia, con il femminicidio di Desdemona e la morte di Otello, non per suicidio ma per emorragia cerebrale, come se in quel fiotto di sangue si identificasse lo scoppio di un dolore incontenibile.
Spettacolo di grande coerenza, applaudito molto calorosamente in tutta la sua componente musicale.
Visto al Festival Verdi di Parma il 5 ottobre.
(foto Roberto Ricci, Teatro Regio di Parma)